[Area] Sulla proposta di modifica della prescrizione dei crediti di lavoro e sulla Costituzione dimenticata
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Ven 18 Lug 2025 11:18:36 CEST
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_Sulla proposta di modifica della prescrizione dei crediti di lavoro e
sulla Costituzione dimenticata_
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(Roma, 18 luglio 2025) - Il relatore del D.d.l. 1561, attualmente in
discussione in Parlamento, ha proposto l'introduzione, nel testo, di un
art. 9 bis, relativo ai crediti retributivi dei lavoratori subordinati e
alla loro prescrizione estintiva.
È un intervento che suscita, più che dubbi o contrarietà, vero
sconcerto: nel merito e nel metodo.
Nel metodo, in quanto il legislatore (inerte in molti ambiti in cui il
suo intervento è stato tante volte richiesto, nelle sedi più autorevoli,
senza esito) mostra di voler intervenire in una materia in cui invece le
questioni interpretative avevano già trovato, in larga parte, un loro
affidabile assetto con lo strumento fisiologico della nomofilachia,
affidato alla Corte di Cassazione, nel solco delle decisioni
costituzionali.
Nel merito, in quanto la norma proposta determina una compressione molto
significativa dei diritti di credito che nascono dalla prestazione di
lavoro. Quel lavoro che la Costituzione pone a fondamento della
Repubblica e che la Corte Costituzionale, fino dagli anni sessanta, ha
riconosciuto come intrinsecamente diseguale, perché connotato dal timore
dei lavoratori di far valere i loro diritti, a fronte dei poteri
datoriali, prima di tutti il potere di licenziare. Da questa
constatazione era nata la giurisprudenza costituzionale che escludeva il
trascorrere della prescrizione durante il rapporto di lavoro, a meno che
esso non fosse assistito dalla garanzia della reintegrazione. Una
garanzia, da sempre assicurata nell'impiego pubblico, che era stata
estesa alle imprese medio grandi dall'art. 18 dello statuto dei
lavoratori. Tuttavia da quando, per scelta del legislatore, la
reintegrazione non è più la sanzione di ogni licenziamento illegittimo
in nessun ambito del lavoro privato, quella garanzia è venuta meno.
All'esito, i lavoratori, dipendenti di qualsiasi datore di lavoro
privato, se illegittimamente licenziati, non possono oggi contare sulla
certa reintegrazione nel loro posto di lavoro. È, insomma, venuto meno
il solo rimedio, che, secondo la Corte Costituzionale, può liberarli dal
timore di rivendicare i propri diritti per paura di essere licenziati.
Preso atto di questo nuovo assetto, nel 2022 la Corte di Cassazione
aveva affermato che, dopo la riforma cosiddetta Fornero, la prescrizione
non decorresse più nel corso dei rapporti di lavoro alle dipendenze di
qualsiasi datore di lavoro privato.
I relatori del D.d.l. sembrano non considerare affatto questi principi
(certo non facoltativi, essendo stati affermati dalla Corte
Costituzionale). Essi hanno infatti previsto, nelle imprese soggette
alla disciplina del nuovo testo dell'art. 18, che la prescrizione
decorra nel corso dei rapporti di lavoro e i lavoratori anzi siano
costretti, a pena di decadenza dai loro diritti, a introdurre il
giudizio per fare valere quei diritti entro un termine breve (180
giorni) dal giorno in cui li hanno rivendicati stragiudizialmente. In
altri termini, i lavoratori, parti di un rapporto diseguale secondo la
nostra Costituzione (e la nuda realtà dei fatti), dovrebbero essere
costretti ad agire in giudizio contro il loro datore di lavoro, anche
mentre ne sono dipendenti, per di più entro limiti temporali impensabili
in qualsiasi altro rapporto connotato da una disparità sostanziale delle
parti (basti pensare alla disciplina in tema di diritti dei
consumatori).
Non solo. Secondo l'emendamento, questi stessi lavoratori, quando
rivendichino una giusta retribuzione, invocando l'art. 36 della
Costituzione in confronto di datori di lavoro che applichino contratti
collettivi sottoscritti da associazioni adeguatamente rappresentative
che non prevedono una retribuzione proporzionata e sufficiente, non
avrebbero più diritto a chiedere una tale retribuzione, come ha
stabilito la Corte di Cassazione da ultimo nel 2023 in attuazione del
precetto costituzionale, se non nei casi di "grave inadeguatezza dello
standard stabilito dal contratto collettivo" e anche in tal caso
spetterebbero loro le differenze solo a partire dalla loro prima
rivendicazione.
La proposta sembra evidentemente ignorare che non spetta al legislatore
ordinario riscrivere i connotati della retribuzione costituzionale, che
si trovano già tutti nell'art. 36 Cost. e che quella che la Costituzione
garantisce non è una paga "non gravemente inadeguata", ma una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e comunque
sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una vita
libera e dignitosa.
Libertà e dignità. La retribuzione ha a che fare con questi diritti, che
la norma proposta minaccia quindi, gravemente, per di più in un momento
in cui il problema salariale appare non più ignorabile nella sua gravità
e nella sua, ormai evidente, relazione con un modello di sviluppo e di
organizzazione produttiva largamente fondato sullo sfruttamento del
lavoro umano.
Libertà e dignità, la cui tutela è ragion d'essere della giurisdizione.
Un potere autonomo e indipendente da ogni altro e, proprio perché tale,
in grado di difendere i diritti dei più fragili e diseguali, tuttavia
sempre meno tollerato, non solo in autocrazie, ma anche in antiche e un
tempo solide democrazie. Anche quando esso si esprime nei suoi organi
supremi, Corte Costituzionale e Corte di Cassazione, avverso le cui
statuizioni questa nuova norma è direttamente rivolta.
_L'Esecutivo di Magistratura democratica_
_Leggi sul sito di Magistratura democratica_ [1]
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