La continuità di una scelta fra servizio e desiderio
L’assemblea di questo Congresso e il dibattito di questi ultimi mesi sono da interpretare come un grande racconto, un momento di forte rielaborazione collettiva attraverso la quale si è avuta la possibilità di percepire le idee di ognuno come la diretta conseguenza di ciò che veramente si è e si pratica nella vita di tutti i giorni.
Anche la franchezza delle posizioni deve essere valutata come il sintomo positivo della vicinanza fra l’essere persona e l’essere magistrato, la prova, cioè, che esiste nel Gruppo uno spirito che tende a rifuggire da ciò che è posticcio o artefatto.
Ho metaforicamente indicato questa assemblea come un grande racconto”.
Ebbene c’è una definizione di Berenson che indica quale è il miglior metodo pratico che ci permette di giudicare la bellezza di un racconto ed è l’aumento della vitalità che provoca in noi.
Usando questo metro di valutazione, mi accorgo che le molte idee che emergono dagli interventi dei singoli colleghi o dai documenti delle sezioni sono il vivificante riscontro di una splendida capacità di progetto.
A patto che si voglia cogliere queste energie e dare ad esse una evidente, percepibile, coerente presenza sul piano politico.
E’ importante dirlo anche perché lo sguardo -a volte fortemente critico- che molti di noi hanno saputo volgere verso la nostra professione e il luogo di lavoro, costituisce un segnale in chiara controtendenza rispetto alle scelte emotive che oggi connotano molte altre categorie sociali.
Il diverso atteggiamento di M.D. è, quindi, la prova che il Gruppo ha ancora in sè una straordinaria potenzialità nel sapersi rigenerare”, nel saper ritrovare il senso ed il valore della prospettiva”.
Questa è la risposta migliore alla querelle sulle c.d. due anime” della corrente: quella che sarebbe più attenta alla sua tradizione ideale e quella, invece, più rivolta alla quotidianità, alla concretezza della vita negli Uffici giudiziari.
In realtà, la capacità di inverarsi, di concretizzare le idee e di teorizzare le esperienze migliori, è, a mio avviso, la vera e unica ANIMA della corrente, nuova e antica al tempo stesso, tanto unificante nei principi quanto poliedrica nelle scelte pragmatiche.
Non a caso nei movimenti culturali più alti e complessi -e Magistratura Democratica ne fa parte a pieno titolo- ciò che è definito come nuovo” non lo è mai del tutto, così come ciò che è antico” non è destinato ad essere dimenticato, ma tenderà a ritrovarsi nella continuità della esperienza in virtù del suo valore intrinseco.
Ciò sarà tanto più vero quanto più all’interno della società ci riusciremo a caratterizzare per il senso critico, quanto più sapremo differenziarci da chi è costretto a ricorrere alla emotività o allo stereotipo quando mancano ragioni profonde e comportamenti coerenti a orientare le sue scelte.
E’ proprio per questo che oggi siamo chiamati a mettere la PERSONA al centro della riflessione politica e della pratica giurisdizionale, garantendo ad essa maggiore impegno e raffinatezza intellettuale.
Quando parlo di PERSONA mi riferisco anche a quella del magistrato, con il suo coagulo di passione, disillusione, difficoltà, rabbia, ricerca di senso.
Andiamo, allora, per priorità.
Siamo inseriti in una complessa situazione sociale resa drammatica dalla mancanza di riferimenti ideali e dalla teorizzata mancanza di regole.
La scelta di un arretramento politico-culturale confligge con la storia di M.D.; si deve trovare, quindi, la forza di riproporsi con forme di intervento culturale meglio organizzate, percepite come più innovative, tese a sollecitare la, sin qui avvilita, intelligenza dei cittadini.
Voglio citare un piccolo esempio concreto: se l’ANM è stata costretta a intervenire formalmente dopo le dichiarazioni del Ministro dell’Economia ad uno dei maggiori giornali italiani per alcune sue imprecise dichiarazioni circa i tempi del nostro lavoro, vuol dire che permangono nelle Istituzioni e nella collettività evidenti incertezze cognitive.
Bisogna, allora, avere il coraggio e la forza di scompaginare radicalmente un tale modo di rapportarsi alla nostra funzione.
Per farlo, bisogna che si affini il nostro ruolo di parte attiva nel confronto e nella crescita culturale, sapendo porre, ad esempio, al centro della riflessione collettiva sulla giurisdizione il senso e il valore del tempo”, inteso come spazio in cui la qualità scientifica degli atti del magistrato, la congruità dei modelli organizzativi in cui egli opera, le risorse messe a disposizione dallo Stato, costituiscono la risposta al comune desiderio di giustizia.
La politica nel senso più alto del termine, ed in particolare quella che oggi ci riguarda più direttamente, sta proprio nel rendere il maggior numero dei cittadini appassionati e curiosi del nostro lavoro istituzionale, ma anche pienamente consci delle sue difficoltà.
E’ chiaro che, per far ciò, non possiamo indulgere alla tentazione egoistica e autoreferenziale del possesso della verità.
Non possiamo permetterci, insomma, di rimanere insensibili o alteri di fronte alla necessità di condividere ogni utile esperienza conoscitiva con coloro che praticano altri settori della conoscenza e della ricerca.
Con il loro aiuto è possibile penetrare spazi di società e di consenso che ci sono ignoti, dove spesso siamo percepiti in modo ostile, dove è stata costituita la base elettorale di chi ci ha costantemente attaccato in ultimi questi anni.
Faccio da tempo parte di coloro che si ostinano a ritenere indispensabile che l’ANM (e, quindi, anche M.D.) si fornisca di un’agile struttura organizzativa che sappia curare in modo scientifico la comunicazione verso i cittadini.
Lo dico perché, con tutta la saggezza e la buona volontà di chi è stato chiamato a ricoprire cariche associative, forse siamo stati poco efficaci nel saper” parlare all’esterno.
E’ questione di tecnica, direi quasi di arte” nell’accezione etimologica del termine, e il tecnico” (anche il magistrato è tale) ha sempre un obbligo morale verso chi a lui si relaziona: dargli un concentrato comprensibile del suo pensiero.
D’altra parte si sa che nella coscienza comune tende a imporsi colui che riesce a comunicare più efficacemente e con argomenti più validi. E’ perciò decisiva la possibilità/capacità di usare linguaggi diversi.
Essa deve rappresentare un connotato indispensabile per la futura azione politica di Magistratura Democratica.
Se siamo stati mal percepiti all’interno della società, se non abbiamo suscitato forte attrazione all’interno della nostra categoria, vuol dire che vi sono state nostre mancanze nel rappresentarsi le esigenze e nell’offrire ad esse risposte adeguate e comprensibili.
A volte siamo stati accusati di avere un approccio troppo ideologico, distante dalla realtà, quasi astrattamente fideistico.
Sono giudizi che in larga parte provengono da chi ha guarda a M.D. con una visione superficiale o, peggio, interessata ad altri fini.
Non sarà male, però, ricordare a noi stessi l’insegnamento di chi disse che quando si vuole forzatamente” inserire gli ideali della tradizione nei discorsi e nelle occasioni di confronto politico, si dimostra di avere poca fiducia in essi. Anzi si lascia in chi ascolta la sensazione che vi sia una sorta di fede verso qualcosa di artificiale, di aggiunto alla vita, laddove, invece, l’attuazione di quei principi deve essere un preciso e visibile MODO di vivere e di pensare.
Ho scritto altre volte che una delle cause della sconfitta alle ultime elezioni del CSM è stata in una nostra difficoltà a distinguersi fra i colleghi, in una irrisolta opacità operativa.
Il recupero di consenso si potrà avere, allora, se si dimostrerà di saper gestire la più scrupolosa conoscenza scientifica della professione attraverso un preciso modo di ESSERE nell’Ufficio giudiziario.
Un modo di ESSERE che sia palese e direttamente verificabile da tutti.
Certamente per fare indirizzo politico-culturale bisogna affrontare con decisione le problematiche tabellari, essere a conoscenza della gestione delle risorse all’interno del Tribunale, pretendere l’applicazione dei criteri organizzativi indicati dal Consiglio Superiore (il c.d. autogoverno dal basso).
Ma appare quanto mai indispensabile anche il recupero di uno stile e una connotazione professionale che, è bene ripeterlo, consideri la PERSONA al centro del processo, della elaborazione giurisprudenziale e di ogni criterio organizzativo.
La sperimentazione dei protocolli, che ha avuto interlocutori importanti nel personale amministrativo e nei rappresentanti più attenti del ceto forense, va continuata e affinata verso forme più sofisticate di efficienza del servizio.
Questo ci renderà più credibili quando si tratterà di discutere con il Governo della nostra tutela economica o degli assetti dell’Ordinamento Giudiziario.
Penso soprattutto che, proprio con riferimento a queste due problematiche, non ci si possa sottrarre alla domanda sulla qualità” del prodotto della nostra attività giurisdizionale.
Bisogna avere molta franchezza nel trattare questo tema.
Quando si afferma di voler porre la questione della tutela della PERSONA nel processo, si deve evitare la tendenza a considerare questo concetto in modo unidirezionale, con impostazioni culturali parziali o dal carattere astratto, puramente ideologico.
Oggi nel processo il concetto di PERSONA va rapportato all’imputato come anche alla persona offesa, al teste, all’operante di Polizia Giudiziaria e, ovviamente, al cittadino nel cui nome viene emesso il provvedimento giurisdizionale.
Ciò comporta il sapersi relazionare con i diversi interessi che incrociamo nella concretezza del lavoro; interessi che chiedono al magistrato scrupolo e tutela da diverse angolazioni e prospettive.
Farsi carico delle particolari visuali non deve portare alla semplice (purchè tendenzialmente ottimale) gestione dell’esistente, ma deve anche diventare riflessione teorica e proposta di politica giudiziaria.
Ciò significa, in primo luogo, riacquisire l’ansia di elevare la persona che si rapporta con il magistrato ad un livello superiore di conoscenza già dal momento della celebrazione del processo, prestandogli il dovuto rispetto, offrendogli l’occasione e gli strumenti per conoscere quale sia la sua funzione all’interno di un luogo dove si esercita una funzione dello Stato.
Per dirla sintesi: porsi il problema di una sua responsabilizzazione.
Significa, poi, dare dignità giuridica e giusta attenzione a tutti i processi, realizzando una trattazione che sia certamente calibrata sugli interessi tutelati, ma non strettamente preferenziale e arbitraria.
Significa, ancora, rimettere al centro della valutazione e della critica il provvedimento giurisdizionale che deve essere inteso come momento più ALTO, per completezza e per chiarezza, in cui lo Stato parla al cittadino sovrano” (sovrano anche nel suo diritto a comprendere pienamente la decisione).
La prassi inquietante dei provvedimenti delle indagini preliminari dove si utilizza in modo pressochè costante lo strumento della motivazione per relationem, insieme a quella delle sentenze con motivazioni apparenti, apodittiche o che constano nella maggior parte di verbali stenotipici di udienza, trasfusi con ragioni lontane dal diritto e più vicine alla comodità redazionale, deve essere contrastata in modo radicale.
E ciò proprio in nome del DIRITTO del cittadino (imputato, persona offesa o membro di una collettività) a capire il percorso decisionale del suo giudice, senza essere da questi rimandato ad un impropria lettura del fascicolo processuale.
Bisogna comprendere che il provvedimento del giudice è pienamente inserito nel vasto circuito della comunicazione (basti pensare a internet), viene letto da tutti: operatori del diritto, rappresentanti delle Forze dell’ordine, semplici cittadini, e ciò ancor prima di ogni valutazione dei Consigli Giudiziari e del Consiglio Superiore.
Questo significa essere RICONOSCIBILI nella società.
Questo significa essere RICONOSIBILI fra i colleghi, anche quelli più giovani, nella concretezza dell’operare, nella capacità di elaborazione scientifica, nella tutela visibile” (e non puramente dichiarata) dei più deboli.
Questo significa riacquisire autorevolezza culturale nel persuadere e nel convincere gli altri.
Infine non possiamo sottrarci alla necessità di un ripensamento complessivo del processo penale a causa dello stato in cui attualmente versa.
Vi è stato in questi anni ad uno straordinario fiorire di disposizioni legislative che affaticano il percorso processuale e di cui, nel totale difetto di informazione specializzata o con la connivenza di quella esistente, ci viene impropriamente chiesto conto di fronte ai cittadini.
Penso, solo per fare qualche esempio, al proliferare di iniziative processuali tese a ottenere il mutamento dell’organo giudicante con il pericolo di porre nel nulla anni di lavoro processuale; oppure alla pratica assai frequente di alcune parti processuali private tesa a ottenere, sulla base di norme giuridiche, continue, sistematiche, inutili ripetizioni di attività istruttorie del dibattimento penale con effetti devastanti sui diritti delle persone offese, sulla efficacia dell’attività del personale della Polizia Giudiziaria, sulle stesse risorse economiche dello Stato.
Il tutto in uno schizofrenico contrapporsi fra la generale e conclamata esigenza di ottimizzazione del denaro pubblico e la realtà normativa che permette il suo spreco.
E questo, è bene sottolinearlo, senza che venga minimamente aumentata alcuna garanzia, anzi raggiungendo l’opposto risultato di attenuare quelle già esistenti, in quanto una sentenza che arriva dopo anni di ritardo non giustificabile dalla complessità del processo appare come inaccettabile per tutti, anche per l’imputato (colpevole o innocente che sia).
La opzione legislativa del contraddittorio non può diventare l’occasione per dare cittadinanza giuridica alla pratica delle richieste immotivate, apodittiche, di carattere puramente potestativo.
Bisogna reagire al silenzio colpevole che vi è stato su tali questioni, ponendo il problema politico e legislativo della effettività e della congruità dell’accertamento processuale, eliminando ogni inutile superfetazione, riportando a criteri di coerenza e di logica scientifica un sistema processuale che non garantisce più alcuno ed è solo funzionale alla tutela di limitati e ben visibili interessi.
In conclusione penso che oggi siamo chiamati ad una azione complessa che deve essere di riflessione, denuncia e informazione, tanto più indispensabili in un realtà sociale italiana che sembra aver completamente smarrito il valore più profondo dell’essere cittadino, oltre che ogni senso della regola e del limite.
Così come negli anni ’70 la frontiera di M.D. fu la riscoperta della Costituzione sotto il profilo della mancata attuazione dei diritti in essa sanciti, oggi la sfida di M.D. è quella di guardare alla qualità professionale del magistrato intesa come strumento per l’attuazione della giustizia e come occasione di una conoscenza collettiva.
Si tratta di costruire, con la forza della ragione e della passione, i collegamenti fra la magistratura e quei settori della società ai quali altri vogliono contrapporci.
Si tratta, per dirla con don Tonino Bello, di scongiurare questa specie di fatalismo che fa ritenere inutili, se non addirittura controproducenti, le scelte di campo, le prese di posizione, le decisioni coraggiose, le testimonianze audaci, i gesti profetici.
Francesco Messina – Giudice Tribunale Trani