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QG 1/2010

Sommario

Editoriale: Il principio di uguaglianza alla prova dei fatti

Leggi e istituzioni

Costituzione e processo penale tra principio di ragionevolezza e uno sguardo verso l'Europa, di Giovanni Maria Flick
Il modello costituzionale del pubblico ministero e la curiosa proposta del processo breve, di Paolo Ferrua
Avvocato della polizia? Storia recente e minacce sul futuro del pubblico ministero, di Nello Rossi
Il carcere. I numeri, i dati, le prospettive, di Francesco Cascini
L'ordinamento della professione di avvocato (Osservazioni al testo del disegno di legge in esame al Senato), di Ennio Lenti
Il diritto alla salute tra dignità della persona e tutela costituzionale, di Carlo Trentini
Brevi note su dichiarazioni anticipate di trattamento e alimentazione o idratazione artificiale, di Antonio Scalera

Obiettivo. Quale processo civile?

Il processo civile italiano e l'esigenza di un ritorno all'unità del sistema, di Gianfranco Gilardi
Le riforme del processo civile italiano tra adversarial system e case management, di Cristina Giorgiantonio
Profili comparatistici su prova testimoniale civile e testimonianza scritta, di Antonio Lamorgese

Magistratura e società

Immagini di giustizia e insidie del potere (Note a margine di un libro di Adriano Prosperi), di Daniela Bifulco

Osservatorio internazionale

L'interruzione dei trattamenti vitali secondo i giudici australiani, di Elena Falletti

Giurisprudenza e documenti

1. Alla Consulta l'obbligo di denuncia dello straniero irregolare da parte del giudice (Angelo Caputo)
Tribunale Voghera, ordinanza 20 novembre 2009, giud.
Dossi, Elisayed Laniloum c. Latina
2. Il crocifisso italiano a Strasburgo: una political question? (Andrea Guazzarotti)
Corte europea dei diritti dell'uomo, sezione II, 3 novembre 2009, pres. Tulkens, Lautsi c. Italia
3. Contumacia "incolpevole" tra Costituzione e CEDU
(Giuseppe Di Chiara)Corte costituzionale, 30 novembre 2009, n. 317, pres.Amirante, red. Silvestri

Editoriale

Il principio di uguaglianza alla prova dei fatti

Dopo 28 anni si cambia. Una nuova veste grafica (che consente - immodificato il numero delle pagine - un significativo aumento del testo) e una nuova copertina sono i primi passi di una operazione di rinnovamento che caratterizzerà i mesi (e i fascicoli) a venire.
Cambia, dunque, la forma della nostra Rivista, ma restano, ovviamente, i problemi che ci circondano e ci coinvolgono.
                                         
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Riesplode Tangentopoli. Non sappiamo, né ci compete, prevederne gli sviluppi, ma le premesse sono quelle che - in una lunga gestazione durata dieci anni (su cui è utile rinviare all'obiettivo Ordinarie storie di politica e tangenti, pubblicato sul n. 2/1987 di questa Rivista) prepararono la stagione di Mani pulite, iniziata il 17 febbraio 1992 con l'arresto a Milano di Mario Chiesa, presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio. Basta leggere le considerazioni svolte, in occasione della inaugurazione dell'anno giudiziario 2010, dal procuratore generale e dal presidente della Corte dei conti, secondo cui la corruzione «è diventata un fenomeno di costume», una «patologia grave» che nel 2009 ha fatto registrare un aumento di denunce alla Guardia di finanza del 229% rispetto all'anno precedente, nonché un incremento del 153% per fatti di concussione, il tutto in assenza di coerente attivazione, da parte delle pubbliche amministrazioni, dei necessari «anticorpi interni», tanto da far ritenere che «il codice penale non basta più, la denuncia non basta più, mentre ci vorrebbe, da parte di tutti, un ritorno all'etica di cui non si vedono avvisaglie». La storia non si ripete mai, ma è curioso constatare l'identità di reazioni all'emergere degli scandali. Oggi, nonostante le denunce degli alti magistrati contabili, autorevoli esponenti politici si affrettano a dire che i corrotti - se corrotti vi sono - rappresentano casi isolati in un contesto sano. Tornano alla mente le dichiarazioni - quantomeno imprudenti alla luce dei fatti successivi - rese dall'on. Craxi, allora segretario politico del partito di riferimento di Chiesa, subito dopo l'arresto di quest'ultimo: «Una delle vittime di questa storia sono proprio io (...). Mi trovo davanti un mariuolo che getta un'ombra su tutta l'immagine di un partito che a Milano, in 50 anni, non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi contro la pubblica amministrazione». E le somiglianze non si fermano qui: negli anni Novanta - qualcuno lo ricorderà - fu un correre a trovare rimedi astratti che portarono anche alla immancabile costituzione, da parte del presidente della Camera, di un Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione (il cui rapporto conclusivo non produsse più che un agile libretto pubblicato dall'editore Laterza). Oggi, mentre queste note vengono licenziate, si anticipa un disegno di legge che - così si dice - aumenterà le pene per corrotti e corruttori... Come se stesse lì il problema!
Contemporaneamente si assiste a una corsa a depotenziare il processo penale, a ridurre la possibilità e l'utilizzazione delle intercettazioni telefoniche e ambientali, a limitare i poteri e l'autonomia del pubblico ministero.
Ciò che colpisce non sono le singole iniziative ma il loro convergere in una prospettiva che è - nella migliore delle ipotesi - quella di un armistizio tra politica e magistratura, avvalorata dalla denuncia della "pari responsabilità" di politici e magistrati nella produzione della attuale instabilità politica, per il cui superamento occorre un nuovo modello costituzionale che ridisegni i rapporti tra le istituzioni e i reciproci ruoli. Non ci pare - lo diciamo con fermezza - la strada giusta per uscire dalla crisi istituzionale che attanaglia il Paese. Non certo per la sottovalutazione della necessità di un corretto rapporto tra giustizia e politica né per un acritico sostegno alle ragioni dei magistrati (di tutti i magistrati, a prescindere dalle caratteristiche dei casi concreti). Ma perché, appunto, di un corretto rapporto deve trattarsi...
                                                
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I problemi non stanno solo sul piano istituzionale. Altrettanti - e ancor più - stanno nel sociale. Guai a dimenticarlo, riducendo le attuali difficoltà della democrazia a questioni di palazzo o, addirittura, di persone (che certo esistono, ma sono ben lungi dall'esaurire la realtà). E il sociale rimanda anche a noi...
Ci sono, in Italia, cinque milioni di stranieri con regolare permesso di soggiorno. Sono la quarta regione d'Italia. Una regione visibile nei colori, nei volti, nei linguaggi, negli abiti. Eppure si tratta di cinque milioni di precari in prova perpetua, legittimati a soggiornare nel nostro Paese solo grazie a un permesso suscettibile di revoca (e destinato finanche, in futuro, a essere strutturato come un sistema a punti, quasi si trattasse di un concorso televisivo). Di più, è una regione che non vota, neppure nelle elezioni amministrative, e, dunque, non può interloquire sulle condizioni di vita proprie e dei propri figli. Molti di questi stranieri sono bambini, in un Paese che invecchia e che vive cullandosi nella retorica della famiglia. Assai spesso sono bambini nati in Italia, che parlano italiano come i loro coetanei. Ma che non hanno - di fatto e di diritto - gli stessi diritti di questi ultimi. Tutto ciò stride con il principio di uguaglianza (che, quando si tratta di diritti fondamentali, vale - secondo il costante orientamento della Corte costituzionale - per tutti: cittadini e stranieri). E vincola la Repubblica e i suoi organi a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che tale uguaglianza escludono.
A questo principio - esiste un'altra Italia, basta saperla vedere... - si sono ispirate le maestre di una scuola di Segrate che hanno scritto una lettera aperta ai propri scolari rom sgombrati, in questo mese di febbraio, dal campo nomadi della cittadina lombarda insieme ai loro genitori: «Ciao Marius, ciao Cristina, Ana, ciao a voi tutti bambini del campo di Segrate.
Voi non leggerete il nostro saluto sul giornale, perché i vostri genitori non sanno leggere e il giornale non lo comperano. È proprio per questo che vi hanno iscritti a scuola e che hanno continuato a mandarvi nonostante la loro vita sia difficilissima, perché sognano di vedervi integrati in questa società, perché sognano un futuro in cui voi siate rispettati e possiate veder riconosciute le vostre capacità e la vostra dignità. Vi fanno studiare perché sognano che almeno voi possiate avere un lavoro, una casa e la fiducia degli altri. Sappiamo quanto siano stati difficili per voi questi mesi: il freddo, tantissimo, gli sgomberi continui che vi hanno costretti ogni volta a perdere tutto e a dormire all'aperto in attesa che i vostri papà ricostruissero una baracchina, sapendo che le ruspe di lì a poco l'avrebbero di nuovo distrutta insieme a tutto ciò che avete. Le vostre cartelle le abbiamo volute tenere a scuola perché sappiate che vi aspettiamo sempre, e anche perché non volevamo che le ruspe che tra pochi giorni raderanno al suolo le vostre casette facessero scempio del vostro lavoro, pieno di entusiasmo e di fatica. Saremo a scuola ad aspettarvi, verremo a prendervi se non potrete venire, non vi lasceremo soli, né voi né i vostri genitori che abbiamo imparato a stimare e ad apprezzare.
Grazie per essere nostri scolari, per averci insegnato quanta tenacia possa esserci nel voler studiare, grazie ai vostri genitori che vi hanno sempre messi al primo posto e che si sono fidati di noi. I vostri compagni ci chiederanno di voi, molti sapranno già perché ad accompagnarvi non sarà stata la vostra mamma ma la maestra. Che spiegazioni potremo dare loro? E quali potremo dare a voi, che condividete con le vostre classi le regole, l'affetto, la giustizia, la solidarietà: come vi spiegheremo gli sgomberi? Non sappiamo cosa vi spiegheremo, ma di sicuro continueremo a insegnarvi tante, tante cose, più cose che possiamo, perché domani voi siate in grado di difendervi dall'ingiustizia, perché i vostri figli siano trattati come bambini, non come bambini rom, colpevoli prima ancora di essere nati. Vi insegneremo mille parole, centomila parole perché nessuno possa più
cercare di annientare chi come voi non ha voce. Ora la vostra voce siamo noi, insieme a tantissimi altri maestri, professori, genitori dei vostri compagni, insieme ai volontari che sono con voi da anni e a tanti amici e abitanti ella nostra zona.
A presto bambini, a scuola.
Le vostre maestre: Irene Gasparini, Flaviana Robbiati, Stefania Faggi,
Ornella Salina, Maria Sciorio, Monica Faccioli».
L'obbligo giuridico di contribuire a rimuovere le situazioni che ostano alla realizzazione di una effettiva uguaglianza chiama in causa - nei limiti delle loro competenze - anche i magistrati, che non sempre, peraltro, mostrano di avere la lucidità delle maestre di Segrate. Un caso per tutti. Il 9 settembre 2009 il Tribunale per i minorenni di Napoli, ha respinto l'appello contro il provvedimento di reiezione della richiesta di arresti domiciliari proposta da una ragazzina rom di 15 anni o poco più, condannata in primo e secondo grado a 3 anni e 8 mesi di reclusione per tentato sequestro di un neonato e in carcere da un anno e mezzo. Nulla da dire - non conoscendo la vicenda sottostante - sul merito. Ma colpisce la motivazione: Le conclusioni indicate sono sostanzialmente confermate dalla relazione epositata in atti dalla quale, a prescindere dalle cause, emerge che l'appellante è pienamente inserita negli schemi tipici della cultura rom. Ed è proprio l'essere assolutamente integrata in quegli schemi di vita che rende, in uno alla mancanza di concreti processi di analisi dei propri vissuti, concreto il pericolo di recidiva».
Non si tratta di un atteggiamento rigoroso contrapposto a un eccesso di buonismo delle maestre di Segrate. C'è sotto, anche se inconsapevole, un pregiudizio («gli zingari rubano i bambini») del tutto privo di fondamento reale (ancorché diffuso) che mal si concilia con una giurisdizione serena, imparziale e coerente con l'art. 3 della Carta fondamentale. Di più, ci sono, in esso, i germi del razzismo. A chi non ci crede suggeriamo - ancora una volta - un agile e istruttivo saggio di G. Barbujani e P. Cheli (Sono razzista, ma sto cercando di smettere, Laterza, 2008); per i più affaccendati basta anche il titolo...

 


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