Quale diritto del lavoro per l'Unione?

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Assemblea dei Giuristi democratici del 29 ottobre 2005

Molto abbiamo già detto e scritto sulle varie questioni in tema di giustizia; in particolare vogliamo ricordare il documento "Per la costruzione di un progetto unitario della sinistra in tema di giustizia" dell'ottobre 2003 ed il successivo "Spunti di ulteriore riflessione su un progetto" del gennaio 2005.

Si tratta, dunque, per noi, di rivisitare e rimodernare quelle considerazioni nei vari settori trattati, alla luce delle modificazioni nel frattempo intervenute e degli approfondimenti cui siamo giunti, anche in una chiave propositiva, oltre che di analisi.

Nel campo del diritto del lavoro, tali rivisitazioni e approfondimenti non possono che avere riferimento alla L. 30 ed ai successivi decreti delegati.
Come già abbiamo detto: il Libro Bianco prospettava una vera e propria rivoluzione nel campo del diritto del lavoro e propugnava l'adozione di "norme leggere" che orientassero l'attività dei soggetti destinatari, senza costringerli ad un determinato comportamento.

Il Libro Bianco è stato, ora, trasformato, con scarse modifiche, nel D.Lgs. n. 30/2003; e subito sono stati presentati i progetti di legge delegati; già lo strumento utilizzato, quello della legge di delega, avrebbe dovuto indurre a qualche timore, posto che, così facendo, si impedisce sostanzialmente un autentico esame da parte del Parlamento, dopo l'approvazione dei principi generali, delle norme elaborate dal Governo, sulla base di quei principi; mai era avvenuto che si utilizzasse una simile procedura in una materia tanto delicata, come il rapporto di lavoro e, per giunta, in una fase di sua radicale trasformazione.

Tutti i decreti delegati sono caratterizzati da una logica neoliberista e mirano a rendere operativa l'abolizione di alcuni principi-cardine del nostro ordinamento in tema di diritto del lavoro: il rapporto di lavoro subordinato diventa una delle varie possibilità di svolgimento dell'attività lavorativa, e quella meno confacente allo spirito del Libro Bianco; la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro viene preventivamente affidata ad enti bilaterali, con la partecipazione delle OO.SS., onde l'impugnazione avanti il Giudice del Lavoro diventerà ancora pi difficile; il divieto di intermediazione di manodopera viene abolito, con l'introduzione autorizzata, anzi, auspicata, di una forma di caporalato, con l'unica differenza che esso viene affidato a società iscritte in appositi registri; vengono istituite nuove forme di lavoro, quale quello a chiamata, lo staff leasing e le prestazioni di lavoro occasionale, che hanno come caratteristica preminente quella di scindere il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro: il lavoratore è considerato uno strumento che può essere utilizzato quando e se serve.
Insomma, la nuova normativa istituisce una vera e propria nuova forma "normale" del rapporto di lavoro, quella che il Prof. Gallino ha efficacemente definito "giusto in tempo".

"Giusto in tempo", rappresenta un principio organizzativo secondo il quale il lavoratore è considerato esattamente alla stregua di una merce, onde deve venir utilizzato solamente nel momento e nel luogo in cui è necessario: la codificazione nella legge 30 delle agenzie di somministrazione e delle aziende utilizzatrici rende evidente ed ufficiale la trasformazione del concetto di lavoratore.

La flessibilità, inoltre, finisce con lo spostare sempre pi verso il fronte di lavoro autonomo e parasubordinato, o comunque atipico, il modello "normale" di rapporto di lavoro; ciò determina, ovviamente, pesanti conseguenze in relazione alla tutela dei diritti di quei lavoratori atipici che avranno difficoltà ad organizzarsi sindacalmente, sia per la diversità delle figure lavorative tra loro, sia per l'insicurezza che caratterizza il loro rapporto di lavoro.

Ma la flessibilità non riduce solo la sicurezza del lavoratore nel mantenimento del suo posto di lavoro: essa incide anche su quelle altre sicurezze che caratterizzano lo svolgimento sereno di una vita lavorativa, quale la sicurezza previdenziale e quella di un reddito dignitoso.

Ora, è vero che i principi costituzionali in materia di tutela del lavoro non sono stati toccati, ma è evidente che la nuova produzione normativa, unita a quel convincimento circa l'ineluttabilità ed anzi l'utilità della flessibilità ed addirittura ad una interiorizzazione del proprio stato di precarietà da parte dei lavoratori atipici, determinerà con molta probabilità conseguenze drammatiche sul livello di garanzia e di tutela dei diritti dei lavoratori e, in ogni caso, sarà di ostacolo ad una lettura e ad una applicazione progressiva dei principi costituzionali.

Ed in ogni caso, è evidente come le nuove forme di lavoro siano solo parzialmente coperte dalle garanzie costituzionali, posto che esse avevano presente, al momento della loro formulazione, il modello classico di rapporto di lavoro, vale a dire quello subordinato, a tempo indeterminato.

Ed ancora, come si può pensare che la nuova normativa sia compatibile con un quadro costituzionale così indiscutibile circa la specificità data alla tutela del lavoratore in quanto soggetto debole; i dubbi di costituzionalità che si stanno profilando sono assai numerosi.
Di pi: l'erosione della tutela del lavoro subordinato, che si attua attraverso la creazione, preferenziale, di altre figure di rapporto di lavoro, rappresenta essa stessa di per s una violazione costituzionale, se è vero, come è vero, che essa non è disponibile nemmeno per il legislatore, in quanto attiene, come affermato da Mortati, alla stessa "forma di Stato".

Nemmeno i giuslavoristi di parte padronale speravano di poter arrivare così facilmente ad una radicale ed epocale trasformazione del rapporto di lavoro; ed invece, grazie all'accettazione pedissequa della flessibilità come valore fondamentale da parte di molti giuslavoristi, anche di parte sindacale, grazie allo spregiudicato uso della L. 30, nota come Legge Biagi, presentata, cioè, come figlia di una vittima del terrorismo e, dunque, come legge da difendere ad ogni costo; grazie, ancora, al discutibile uso dei decreti delegati che non consentono di entrare nel cuore della questione; grazie, infine, alla clamorosa, in termini numerici, e catastrofica, in termini di risultati, sconfitta elettorale del 2001, oggi ci troviamo di fronte ad una situazione ribaltata rispetto al passato.

Si è rotto il rapporto temporale e spaziale tra datore di lavoro e lavoratore, si è esaurita (o molto indebolita) la funzione delle OO.SS. nella gestione delle nuove figure di lavoro, o perch nemmeno coinvolte, stante la natura prevalentemente individuale e autorizzata del nuovo rapporto di lavoro atipico, o perch, comunque, le OO.SS. non appaiono in grado, per loro struttura, di a governare esigenze soggettive diverse, in un quadro, quello della flessibilità, che prescinde dalle esigenze collettive.

Si è superata l'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che per anni ha puntigliosamente segnato i limiti tra rapporto di lavoro subordinato ed autonomo; si è eliminato il divieto di intermediazione di mano d'opera; si è, in definitiva, trasformato il lavoratore in merce.

E tutto ciò in nome di due principi:

1) quello del mercato, che parrebbe esigere tale riposizionamento del rapporto di lavoro;
2) quello delle esigenze soggettive del lavoratore, precedentemente sacrificate sull'altare delle esigenze collettive.

Ora, se il secondo principio presenta qualche aspetto di verità, nel senso che sovente non si è riusciti, da parte sindacale a coniugare le istanze collettive con quelle individuali e dunque può essere opportuna una rettifica dei comportamenti sindacali; il primo principio appare generico e falso, improntato ad ottenere mano libera per il padronato nell'organizzazione del lavoro, in nome del principio che se l'impresa è competitiva, cresce l'occupazione e migliorano le condizioni economiche dei dipendenti.

Si tratta dell'applicazione, nell'ambito normativo, del principio della riduzione del costo del lavoro (e dunque dei salari), già applicato con successo (per loro) dalle aziende; gli anni trascorsi ci hanno dimostrato come, a fronte dell'effettiva riduzione del costo, del lavoro, con una reale perdita del potere d'acquisto dei salari, non è corrisposto un aumento dell'occupazione, a meno di voler prendere per buoni i dati di Berlusconi, che considera occupati anche i lavoratori precari con contratti di durata settimanale.

Occorrerebbe, perciò, riesaminare il concetto di flessibilità, sia dell'occupazione, sia della forma della prestazione e trovare un giusto equilibrio tra le esigenze del mercato e dei soggetti interessati ed il necessario rispetto dei diritti fondamentali del lavoratore.

Occorre, cioè, non essere schiavi del mercato: il fatto che oggi, secondo alcuni dati, circa i 2/3 delle nuove assunzioni avvengono con contratti atipici, non deve significare che quel tipo di contratto è il contratto necessariamente vincente: è evidente che l'imprenditore, a fronte della possibilità di stipulare un contratto per lui pi vantaggioso, vi faccia ricorso, ma non vi è prova alcuna che, se avesse dovuto operare all'interno del rapporto di lavoro "normale", a tempo indeterminato, le assunzioni non vi sarebbero state.

Ed allora, dobbiamo avere il coraggio di tornare indietro, ad una concezione del rapporto di lavoro che dia la priorità al rapporto di lavoro subordinato, a tempo indeterminato, pur evitando certe posizioni di eccessiva rigidità verso altre forme contrattuali, purch non siano tali da:

a) non trasformare il lavoratore in merce;
b) non ridurre la sicurezza sul lavoro;
c) non impedire di non trasformare l'attuale situazione in una pi favorevole ai lavoratori, come la Costituzione impone (e come oggi è impossibile fare, con gli strumenti normativi vigenti).

Si deve, dunque, non solo andare ad una abrogazione della L. 30, ma anche operare una rivisitazione del concetto di flessibilità, distinguendo, come fa il Prof. Gallino, tra flessibilità buona e flessibilità cattiva.

Occorre, poi, ripristinare il rapporto datore di lavoro - lavoratore, con eliminazione delle forme di caporalato oggi previste e delle possibilità dell'esistenza di un imprenditore senza dipendenti; occorre ritornare ad un'applicazione dell'art. 2070 c.c. che leghi il contratto di lavoro applicabile al tipo di attività merceologica svolta dall'imprenditore, onde evitare che nello stesso luogo di lavoro operino lavoratori dipendenti da appaltatori o sub-appaltatori, ognuno con un contratto collettivo diverso, a fianco di lavoratori a progetto, lavoratori in affitto e dipendenti dell'imprenditore medesimo.

Occorre, ancora, rivedere la normativa sull'orario di lavoro per impedire che, in applicazione di direttive europee, si subisca un arretramento dei diritti acquisiti in questo campo.

La lotta contro le direttive europee (e per la loro modifica) in materia di lavoro (v. la Direttiva Bolkenstein) appare particolarmente importante in questa fase: d'altronde, è noto il vizio genetico dell'Unione Europea che è nata come CECA e poi come CEE, sempre con caratteristiche accentuatamente mercantili, senza alcun riguardo, almeno sino alla Carta di Nizza, al problema dei diritti, e di quelli dei lavoratori in particolare.

In un simile quadro, non deve essere trascurata la prossima, probabile adozione da parte dell'Unione Europea del Trattato Costituzionale, pur recentemente bocciato dai referendum in Francia ed in Olanda.

So bene di toccare un tasto particolarmente delicato, perch in molti sostengono l'assoluta necessità di adottare quel testo come primo gradino per un'estensione dei principi democratici anche a Stati aventi deficit di democrazia, ma non posso esimermi dal dire che quel testo è francamente deludente (parlo naturalmente della parte relativa alla Carta dei Diritti Sociali) e potrebbe rappresentare un rischio di arretramento, in prospettiva, per quegli Stati costituzionalmente pi avanzati.

In altre parole, invece di cogliere l'occasione fornita dall'elaborazione di un nuovo strumento costituzionale per reperire nuove regole fondanti in relazione ai nuovi diritti sociali che si sono andati delineando ed affermando nell'ultima fase storica, ed introdurle, attraverso il Trattato Costituzionale Europeo, negli ordinamenti nazionali, si corre il rischio di fornire a quelle posizioni, ben note in Italia, che hanno come obiettivo la disarticolazione del nostro sistema costituzionale, la possibilità di rafforzarsi, nel momento in cui alcuni principi-cardine del nostro ordinamento costituzionale non compaiono pi con la stessa forza nel Trattato Costituzionale Europeo.

La materia del lavoro è emblematica, sotto questo profilo: si è già ricordato come, per il nostro ordinamento, il lavoro assurga a diritto fondante, diritto che lo Stato si impegna a promuovere e a proteggere in ogni situazione; ora, invece, la bozza di Trattato Costituzionale riporta il diritto al lavoro tra i diritti sociali, come quello alla libera circolazione, alla libera espressione del pensiero, alla libertà religiosa ecc.: non si tratta di cambiamento di poco conto, si trasforma il diritto al lavoro nel diritto a lavorare, che è tutt'altra cosa.

E' dunque evidente il rischio di una trasformazione sociale del ruolo del cittadino lavoratore, prodotta da una norma costituzionale europea che potrebbe avere ripercussioni se non sul nostro assetto costituzionale, quantomeno sull'interpretazione che di tale diritto potrà fare la magistratura.

Se appare grave la questione di diritto sostanziale, non meno preoccupante appare la situazione sotto il profilo processuale.

Qui, infatti, è in atto un tentativo di "normalizzazione" che si basa, da un lato, sulla tendenziale privatizzazione della giustizia del lavoro, dall'altro sul tendenziale riassorbimento del rito del lavoro nel processo civile.

Sotto il primo profilo, non si può non rilevare come il Libro Bianco individui l'arbitrato come lo strumento principe per amministrare "con maggiore equità ed efficienza" le controversie di lavoro, con una evidente delegittimazione della Magistratura, rea, evidentemente, di aver operato sino ad ora in maniera iniqua ed inefficiente.

La scelta operata è resa, poi, ancora pi grave se si considera che l'arbitrato auspicato dal Libro Bianco è un arbitrato secondo equità, svincolato, dunque, dal rispetto di leggi e contratti ed impugnabile solo per vizi di procedura.

In una tale situazione, il ruolo delle OO.SS. apparirebbe fortemente ridimensionato: quale motivo (e quale legittimazione) avrebbero le OO.SS. per stipulare contratti, se poi fosse possibile all'arbitro disattenderli per motivi di equità? N i lavoratori avrebbero ragione di scioperare per la sottoscrizione di un contratto, se poi esso potesse essere disapplicato dall'arbitro, in caso di controversia.

Non trascurabile, poi, appare il rischio che i costi dell'arbitrato, anche solo gli acconti da versare agli arbitri, rappresentino un forte disincentivo per i lavoratori a ricorrere alla giustizia.

Il processo del lavoro deve restare gratuito; in tale ottica non va dimenticata la tendenza strisciante ad aggravare di costi la procedura, applicando con sempre maggior frequenza anche ai lavoratori sconfitti il principio della soccombenza nelle liti e gravando il lavoratore anche di altri costi aggiuntivi, quali il costo di notifica per raccomandata, il costo di cartoline e buste per le notifiche, il costo della trasferta in ipotesi di pignoramento, il costo da corrispondere all'Istituto Vendite.

Anche in relazione al secondo aspetto di preoccupazione sopra evidenziato, vale a dire il tendenziale assorbimento del processo del lavoro in quello civile ordinario, non si può non osservare che esso è frutto della progressiva perdita di incisività del rito del lavoro nell'immaginario sociale; ricordo come il processo del lavoro avesse come sua prerogativa principale, accanto al principio del favor lavoratoris, la sua pubblicità, testimoniata dal fatto che le udienze si svolgevano nelle aule della (allora) Pretura ed erano, ovviamente, pubbliche non solo formalmente, ma anche sostanzialmente, nel senso che era quasi sempre presente qualche persona interessata.

Da qualche anno a questa parte, le udienze si svolgono nel chiuso delle stanze dei Magistrati e nessuno vi partecipa; anzi, molti ritengono, addirittura, che le udienze siano private!

Se a ciò aggiungiamo la tendenziale onerosità delle cause ed il sempre calante favor lavoratoris, appare evidente che l'opera di riduzione del processo del lavoro a processo ordinario è in stadio avanzato.

La motivazione che sostiene questa trasformazione sarebbe costituita dal fallimento del processo del lavoro che giustificherebbe la rinuncia a quel rito peculiare.

La realtà è, però, ben diversa da quella che ci si vuole mostrare.

Non risponde al vero, infatti, che il processo del lavoro abbia dimostrato di non poter funzionare; esso soffre di gravi squilibri territoriali, ma la sua essenza come sistema, è assolutamente realizzabile, come è dimostrato dalla positiva situazione esistente in alcuni distretti, come quelli di Torino, Genova, Milano ed altri; se, dunque, in altre situazioni il processo del lavoro non ha funzionato, la causa va ricercata in problemi organizzativi e, comunque, collaterali rispetto al rito.

Nel corso di un recente incontro avvenuto a Fiesole tra l'associazionismo ed i responsabili giustizia dei vari partiti dell'Unione, si è elaborato un documento che, per la parte relativa al processo del lavoro, può essere qui riproposta, contenendo linee generali condivisibili e che rappresentano anche proposte concrete, di immediata attuabilità.
Ripropongo, dunque, la parte di quel documento, la cui stesura era stata curata dal Dott. Gilardi.

Alla tendenza in atto di dar risposta ai problemi del processo del lavoro con l'estinzione generalizzata dell'arbitrato, occorre contrapporre un monitoraggio attento delle situazioni in cui il rito del lavoro ha fallito i suoi obiettivi e di quelle in cui, viceversa, ha funzionato ed un'analisi approfondita delle cause delle disfunzioni che, a parte altri fattori, si riconducono essenzialmente a) alla mole enorme del contenzioso previdenziale, alimentato sia dalla scarsa linearità della legislazione previdenziale, sottoposta a continue integrazioni e modificazioni, sia dalla lentezza burocratica e dalla inadeguata organizzazione degli enti previdenziali ed assistenziali (specie in alcune zone d'Italia) che incentivano un contenzioso determinato esclusivamente dall'incredibile ritardo nell'adempimento di prestazioni riconosciute come dovute dagli stessi enti (indennità di disoccupazione e rivalutazione di essa, assegni familiari, indennità per il lavoro agricolo, indennità di economiche per malattia e per maternità etc.); b) alla mancanza di un sistema di rilevazione di dati statistici in ordine alla natura ed alla tipologia delle cause pendenti, idonea a consentire una concreta razionalizzazione degli organici dei tribunali ed il potenziamento delle risorse nelle sedi maggiormente carenti di personale.

Occorrono quindi iniziative legislative rivolte non a smantellare il processo del 1973, costituente tuttora uno strumento essenziale della tutela del lavoro, ma a) ad incidere con norme chiare sulle procedure amministrative degli enti di assistenza e di previdenza anche allo scopo di evitare il contenzioso legale del tutto antieconomico; b) a razionalizzare l'organico dei Tribunali del lavoro, con un'adeguata politica delle risorse e con opportuni rimedi organizzativi interni.

A fronte del sostanziale insuccesso del tentativo obbligatorio di conciliazione e dell'arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi, e nell'ottica del mantenimento e rafforzamento, con gli opportuni correttivi, dell'impianto del processo voluto dal legislatore del '73, pare opportuna la previsione di una fase conciliativa, precontenziosa ma endoprocessuale, come quella prevista dalla "Commissione per lo studio e per la revisione della normativa processuale del lavoro" istituita nella precedente legislatura (c.d. Commissione "Foglia"), così come appare urgente - attualmente i licenziamenti arrivano in cassazione, di media, dopo 7/8 anni ma anche dopo 10/12 anni - l'introduzione di una procedura abbreviata per le controversie relative ai licenziamenti ed ai trasferimenti, sulla falsariga del procedimento ipotizzato dalla Commissione per ultimo citata.

Quanto al contenzioso previdenziale, spesso connotato dal carattere di serialità e ripetitività degli adempimenti (semplice presa d'atto degli esiti di una perizia medica, conteggi in tema di indennità la cui verifica matematica è spesso già frutto di un controllo incrociato tra le difese delle parti in causa, etc.), nel corso del seminario è stata riproposta l'ipotesi di introduzione di "sezioni stralcio", sulla falsariga di quanto previsto per il rito ordinario dalla l. n. 276/1997, con devoluzione del contenzioso previdenziale ad un giudice onorario specializzato (magistrati del Lavoro o docenti della materia in pensione), allo scopo di far fronte all'enorme arretrato che si è venuto a creare, specie nel Sud, determinando una vere "emergenza nell'emergenza".

Pi in generale possono essere qui ricordate le proposte incentrate su una forte valorizzazione della fase amministrativa, prevedendo l'armonizzazione delle singole procedure esistenti presso i vari enti e la loro articolazione in un unico grado, con relativa uniformità dei termini, ed il rafforzamento del carattere di terzietà per il tramite di sedi contenziose esterne rispetto alle sedi degli enti interessati (costituzione di organi amministrativi collegiali a cui dovrebbero partecipare anche i rappresentanti delle parti interessate e comunque consulenti che abbiano specifiche competenze medico legali, e potenziamento qualitativo dell'istruttoria, garantendo il contraddittorio anche attraverso l'assistenza tecnico-legale).

Torino, ottobre 2005

Roberto Lamacchia

10 11 2005
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