- La questione sicurezza ha assunto da alcuni anni un’inedita centralità nel dibattito politico e mediatico: si tratta di un fenomeno che investe non solo il nostro Paese, ma tutto il mondo occidentale e proprio questa dimensione globale deve far riflettere sulla sua straordinaria complessità, una complessità negata dall’approccio per slogans che, ad esempio, caratterizza, con significative assonanze, i manifesti elettorali presentati sul tema dai candidati dei principali schieramenti alle elezioni politiche.
Il senso di insicurezza che attraversa le nostre società ha radici profonde, che affondano, in primo luogo, nella crisi del legame sociale determinata dal progressivo smantellamento del Welfare State. Lo smarrimento dell’idea di sicurezza accolta dall’art.41 della Costituzione, quella di un limite all’iniziativa economica privata in funzione di utilità sociale, l’avvento dell’economia politica dell’incertezza e della società del rischio, la precarizzazione dei diritti sociali e lo svuotamento del diritto al lavoro, l’allargamento dell’area della marginalità sociale, l’individuazione, nella geografia urbana, di aree di esclusione sociale (i tanti Bronx di tutte le nostre città) sempre pi separate, pi distanti dalla città degli inclusi: sono questi i primi fattori genetici dell’insicurezza collettiva, fattori che vanno ricordati non per nascondere o svilire l’incidenza nella produzione della paura sociale della criminalità – e, quindi, il ruolo/responsabilità della magistratura – ma per restituire alla questione la sua reale complessità e per comprendere le ragioni della distanza tra la percezione di tale incidenza e la obiettiva situazione criminale del Paese. -
Nella graduatoria dei principali problemi che preoccupano gli italiani – secondo le ultime indagini del Censis – vengono, nell’ordine, la delinquenza comune (37,1%; nel 1997 era al quarto posto con il 24,8% delle segnalazioni), la disoccupazione (36,4%; nel 1997 era al primo posto con il 46,6%), il traffico urbano (27,3%; nel 1997 era sempre al terzo posto con il 25,1), la droga (24,8%; nel 1997 era al secondo posto con il 26,7), l’immigrazione extracomunitaria (21,9%; nel 1997 era all’ottavo posto con il 15,9%), la carenza di servizi sociosanitari (21,4%; nel 1997 era al quinto posto con il 21,2). Eppure l’allarme sociale sulle questioni della sicurezza e della immigrazione è confermato solo in parte dai dati sull’andamento di tali fenomeni (brevi dati comparati). L’attenzione ai dati reali non deve portare ad atteggiamenti di sufficienza o di sottovalutazione del problema, ma alla individuazione di risposte adeguate (e non di risposte emotive, come l’enfasi – anche normativa – sulla microcriminalità, che lungi dal produrre rassicurazione alimenta ulteriore insicurezza). Basti pensare al carcere: mentre la percezione sociale è di un diffuso lassismo, il numero dei detenuti in Italia è cresciuto vertiginosamente negli ultimi dieci anni (nonostante la sostanziale stabilità della situazione criminale): erano 25.573 al 31.12.1990 e sono diventati 51.604 al 31.12.1999; dei primi, 7.299, pari al 28,54%, erano tossicodipendenti; dei secondi 15.097, pari al 29,26%: quasi un detenuto su tre è tossicodipendente. Eppure ciò non ha minimamente aumentato il senso di sicurezza dei cittadini. Un minimo di dettaglio sulla situazione carceraria è illuminante. Sempre nel periodo 1991-1999, la percentuale dei detenuti per reati in materia di stupefacenti è oscillata tra il 32,63% (primo semestre 1993) e il 43,84% (secondo semestre 1991) con una media complessiva del 37,14%; la maggior parte dei detenuti per reati in materia di stupefacenti è rappresentata da tossicodipendenti: la media relativa allo stesso periodo è stata calcolata nel 51,88%.
Nell’arco dei nove anni di applicazione della legge Iervolino-Vassalli, quasi due detenuti su cinque sono stati in carcere per reati in materia di droga. Al 31.12.1991 i detenuti stranieri erano 8.558 (24,33% del totale), mentre al 31.12.1999 erano 14.057 (27,4% del totale). Nel corso del 1999 i nuovi ingressi di detenuti stranieri sono stati 28.208 (su un totale 90.486 pari al 31,17%): di questi 11.624 (su un totale di 32.668) per reati in materia di stupefacenti e 16.584 (su un totale di 57.818) per altri reati. Pi di un detenuto su quattro è straniero; quasi un ingresso in carcere su tre riguarda stranieri.
Sempre con riferimento al rapporto immigrazione – criminalità, va segnalata le enormi percentuali di stranieri irregolari sul totale degli stranieri denunciati: nel 1999, per il reato di omicidio erano irregolari l’83% degli stranieri denunciati, per il furto l’85%, per il furto d’auto l’85%, per la rapina l’81%, per la rapina impropria l’86%, per lo sfruttamento della prostituzione il 70%, per l’evasione il 79%. Dunque, è la condizione di irregolarità - e non all’immigrazione in quanto tale – a favorire comportamenti devianti, sicchè una ragionevole politica di sicurezza dovrebbe tendere, innanzi tutto, a ridurre la clandestinità e a favorire la regolarizzazione. -
La diffusione degli stupefacenti è, dunque, uno dei settori-chiave che sembrano fungere da catalizzatori dell’insicurezza collettiva e sui quali si concentrano i processi di carcerizzazione. In Italia, il discorso pubblico sulla questione droga è paralizzato da un compatto fronte ideologico, costituito da estese aree politiche, da agguerrite gerarchie ecclesiastiche, nonch, strettamente legati alle une e/o alle altre, da importanti segmenti del mondo del volontariato: autoinvestendosi della funzione messianica di partito della vita, questo fronte riesce sistematicamente a demonizzare qualsiasi iniziativa critica rispetto alla normativa proibizionistica vigente attraverso l’evocazione, appunto, di un contrapposto partito della morte. Una seria riflessione sulla questione droga ed un rigoroso bilancio del decennio di applicazione della legge Iervolino – Vassalli non possono svincolarsi da alcune considerazioni di ordine generale:
la diffusione degli stupefacenti e la tossicodipendenza non sono state arginate dal sistema proibizionistico-repressivo. Le recenti trasposizione planetarie di questo sistema – la guerra alla droga dichiarata dall’Agenzia Onu e le relative strategie globali di eradicazione – hanno dato risultati egualmente fallimentari;
- i costi sociali causati dal sistema proibizionistico-repressivo sono parimenti enormi. Sono i costi scaricati sulle famiglie dei tossicodipendenti, sostanzialmente abbandonate al loro destino e sono i costi scaricati sull’intera società dai processi di criminalizzazione indotti dall’uso di stupefacenti: proprio sul terreno della delinquenza comune, che le statistiche e le inchieste sociologiche collocano ai vertici dell’allarme sociale, il ruolo criminogenetico della normativa proibizionistica vigente appare eclatante.
- La normativa in tema di immigrazione (secondo settore di rilievo nella questione securitaria) presenta, nei suoi tratti fondamentali, profili che, anche dal punto di vista della sicurezza sociale, sollecitano un complessivo ripensamento, partendo da una premessa: le caratteristiche epocali dei movimenti migratori in corso rendono assolutamente costante, in tutti i paesi del mondo, una certo tasso di ingressi irregolari. E’ questo un dato con il quale gli ordinamenti giuridici devono fare realisticamente i conti se vogliono aspirare ad un effettivo governo dell’immigrazione. Nonostante le caute – e in gran parte ancora inattuate - aperture sul terreno della condizione giuridica degli stranieri regolari, la legge Turco - Napolitano appare, con riferimento alla disciplina di ingressi, soggiorno ed allontanamenti, ispirata alla logica dell’ordine pubblico, una logica che produce irregolarità, ossia, secondo il gergo mediatico, clandestinità.
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Sul terreno degli ingressi, va abbandonato l’approccio ideologico che lega l’ingresso per motivi di lavoro all’incontro tra domanda ed offerta a livello planetario, un approccio che rende il sistema incapace di assecondare e governare l’offerta di lavoro per cittadini stranieri presente nel nostro Paese.
La vischiosità, l’assurdità della disciplina vigente impone l’introduzione, nell’ambito delle quote di ingressi programmati, del permesso di soggiorno finalizzato alla ricerca del lavoro: un permesso di questo tipo, ovviamente a tempo, renderebbe senz’altro pi flessibile e pi realistica la politica dei flussi. Sempre in materia di ingressi, vanno incentivati i ricongiungimenti familiari, che rendendo stabile e sicura la permanenza dello straniero, rappresentano una formidabile controspinta rispetto ai comportamenti devianti. - Sul terreno del soggiorno, è necessaria l’adozione di meccanismi di regolarizzazione permanente degli stranieri che, entrati irregolarmente nel Paese, abbiano acquisito, con il decorso tempo, le condizioni che ne avrebbero legittimato l’ingresso: di fronte ad un fenomeno delle dimensioni e delle caratteristiche degli attuali flussi immigratori, un meccanismo del genere servirebbe a valorizzare i comportamenti virtuosi degli immigrati irregolari, determinando, ancora una volta, una significativa controspinta rispetto ai comportamenti devianti.
- Sul terreno degli allontanamenti, infine, la filosofia dell’ordine pubblico attribuisce all’espulsione un rilievo centrale, se non esclusivo nella gestione della irregolarità degli stranieri: nonostante le critiche della dottrina e degli operatori, qualsiasi violazione di qualsiasi norma in materia di ingresso e soggiorno è sanzionata con l’espulsione; di conseguenza, non essendo previste valutazioni sulla gravità della violazione commessa, n, come si è visto, meccanismi di regolarizzazione in itinere, il percorso che conduce gli immigrati dalla regolarità alla irregolarità è estremamente facile, laddove il percorso opposto è rigidamente precluso. La condizione dell’immigrato irregolare viene così configurata “come quasi delitto a cui rispondere con una inedita quasi detenzione” , ossia con la permanenza nei centri di detenzione amministrativa che, al di là dei profili di dubbia costituzionalità, alla prova dei fatti si sono per giunta rivelati sostanzialmente inutili sul piano della effettività delle espulsioni.
E’ lecita allora l’attribuzione ai centri di detenzione di una funzione che - diversamente da quella ufficiale – si colloca sul piano politico-simbolico della rassicurazione del corpo sociale investito periodicamente da campagne sicuritarie costruite sul pericolo invasione immigrati.
Ma se, come è dimostrato dai dati oggettivi e confermato dalla percezione sociale dell’allarme criminalità, il coinvolgimento di immigrati in attività illecite è strettamente connesso alla condizione di irregolarità, quale razionalità può essere riconosciuta ad un sistema che incentiva la clandestinità e impedisce la regolarizzazione? E a quale efficacia possono aspirare politiche di tipo segregazionista che, muovendosi in una dimensione simbolico-emotiva, sono destinate ad alimentare il senso di insicurezza, non ad offrirgli risposte concrete? -
Sul terreno degli ingressi, va abbandonato l’approccio ideologico che lega l’ingresso per motivi di lavoro all’incontro tra domanda ed offerta a livello planetario, un approccio che rende il sistema incapace di assecondare e governare l’offerta di lavoro per cittadini stranieri presente nel nostro Paese.
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La direzione verso la quale è orientato il discorso pubblico sulla questione sicurezza è determinata non dall’approccio freddo e razionale qui invocato ma dal pensiero unico elaborato dai sostenitori della tolleranza zero.
Alla base di tale strategia (o, pi esattamente, ideologia) vi è, da una parte, la volontà di dare una risposta di segno autoritario, segregazionista alla crisi epocale che attraversa i paesi occidentali, una crisi che ha travolto consolidati modelli di mediazione politico-sociale e di sostegno pubblico alle fasce deboli: in questo senso, tolleranza zero significa “politica di criminalizzazione della miseria funzionale all’imposizione della condizione salariale precaria e sottopagata come obbligo di cittadinanza e alla concomitante riformulazione dei programmi sociali in senso punitivo” (Wacquant).
D’altra parte, vi è la consapevolezza che i fattori maggiormente produttivi di insicurezza sociale sono i comportamenti proto o subcriminali: il vetro rotto, le scritte sui muri o sui vagoni ferroviari, la prepotenza sui mezzi pubblici, il bullismo, il vandalismo, la piccola violenza. Il senso autentico della tolleranza zero consiste, appunto, nella intolleranza verso le distinzioni necessarie a comprendere le ragioni profonde dei fenomeni sociali: marginalità sociale = devianza = criminalità; simmetricamente, le strategie di risposta non tollerano digressioni rispetto al percorso che conduce alle prigioni della miseria: riduzione della garanzie collettive – degradazione delle relazioni sociali – insicurezza – repressione.
Le ricadute sui sistemi penali della filosofia della tolleranza zero sono imponenti e segni ogni giorno pi chiari di queste tendenze sono individuabili nei vari ordinamenti occidentali.
La crescita imponente del peso degli apparati di sicurezza si esprime non solo nel progressivo aumento delle risorse ad essi destinate (in proporzione inversa rispetto alla riduzione della spesa sociale), ma anche nell’utilizzo dell’esercito in funzioni di ordine pubblico, nella progressiva estensione e privatizzazione del sistema carcerario, nell’istituzione di corpi speciali di polizia dotati di crescente autonomia, nell’ampliamento dei poteri di polizia nell’ambito del procedimento penale con parallelo ridimensionamento del controllo da parte dell’autorità giudiziaria.
L’involuzione autoritaria del diritto penale sostanziale traduce il sentimento di insicurezza collettiva nell’aumento delle pene edittali per i reati tipici della criminalità da strada, nel deficit di tassatività per le fattispecie incriminatrici, specie nei settori sensibili, quali immigrazione clandestina e reati sessuali, nella dilatazione del ricorso ad istituti a rischio quali l’agente provocatore, nell’uso simbolico della sanzione penale, piegata a funzioni di rassicurazione sociale e, quindi, esposta alle incursioni della legislazione emergenziale.
La deriva antigarantistica del processo penale costruisce un duplice modello di procedimento penale, o meglio contrappone ad un modello ufficiale alto, coerentemente ispirato ai principi del rito accusatorio e concretamente orientato in senso garantistico, un modello fattuale basso concretamente e duramente operante nei confronti della micro-criminalità. I tratti del modello basso sono ormai ben delineati: la carcerazione preventiva non è pi l’eccezione, ma diviene la regola grazie all’aumento delle pene edittali per i reati allarmanti e l’introduzione di presunzioni di pericolosità sociale per la criminalità da strada; i riti alternativi di tipo inquisitorio perdono, di fatto, il loro carattere di consensualità per assumere, in concreto, i connotati della scelta obbligata; il giudizio direttissimo recupera di nuovo la sua antica fisionomia di giudizio esemplare; la difesa tecnica, nella pienezza dei suoi contenuti, è pura virtualità. L’amministrativizzazione dei diritti fondamentali della persona si realizza attraverso la costruzione di ordinamenti separati, di veri e propri diritti speciali per le nuove classi pericolose, sul modello dello stato liberale ottocentesco: tipico il caso della detenzione amministrativa degli stranieri irregolari, ma rientra in questa tendenza la riscoperta delle misure di prevenzione in vari settori (ad esempio, la devianza giovanile).
Di fronte a queste prospettive, che anche in Italia hanno trovato significative applicazioni nel vari pacchetti proposti ed approvati nel corso dell’ultima legislatura, è necessario ribadire i limiti dell’intervento giudiziario.
L’intervento giudiziario, anche nella sua – insopprimibile, ma residuale – dimensione repressiva, è fondamentale in una società; è indispensabile per la soluzione e il governo di alcuni conflitti, per individuare il punto di equilibrio tra libertà e autorità, per accertare specifiche responsabilità (in particolare, per fatti gravi), per dire il diritto in situazioni opinabili, per riaffermare valori, sanzionando i comportamenti devianti; il perseguimento di una maggior efficienza degli apparati polizieschi e giudiziari è, dunque, un elementare dovere di chi ha responsabilità pubbliche. L’intervento giudiziario, tuttavia, non è di per s produttivo di sicurezza, così come non può esserlo un intervento che - in ogni parte del mondo - riguarda non pi del 20% dei reati commessi ed ha tempi strutturalmente medio-lunghi: sottolineare l’intrinseca impossibilità della supplenza giudiziaria sul terreno del consolidamento del senso di sicurezza non significa de-responsabilizzare la magistratura, ma solo scongiurare l’affermazione di pericolose illusioni.
D’altra parte, sempre pi allarmanti sono le torsioni del nucleo garantistico della Costituzione che discendono dalle politiche sicuritarie adottate anche nel nostro Paese, torsioni che riguardano le libertà fondamentali dell’individuo e i principi processual-penalistici, i limiti all’esercizio dei poteri dello Stato-apparato ed il ruolo costituzionale della giurisdizione.
Da quest’ultimo punto di vista, in particolare, si registra una netta tendenza normativa a svilire il ruolo del controllo giurisdizionale sull’esercizio dei poteri di polizia nei settori pi allarmanti (immigrazione, criminalità da strada), privando tale controllo di effettività ed attribuendo alla magistratura una funzione di passacarte dell’autorità amministrativa. Di fronte ai programmi politico-culturali che vorrebbero sterilizzare il controllo di legalità operato dalla giurisdizione sui poteri forti della società, restituendo ai giudici l’antico ruolo di impotenti spettatori delle deviazioni criminali dei potenti e di implacabili persecutori delle sole deviazioni marginali dei ladri di polli, occorre ribadire che l’essenza ed il valore della giurisdizione, la sua pi antica e profonda legittimazione, consistono nella tutela – egualitaria ed effettiva - dei diritti fondamentali della persona, di tutte le persone indipendentemente dal censo, dalla cittadinanza o da ogni altra condizione individuale o sociale.
Nel Paese che pi di tre secoli fa consegnò alla civiltà giuridica la garanzia dell’habeas corpus, una legge del 1998 ha abolito il cd. doli incapax per i bambini dai dieci ai tredici anni, ha previsto il coprifuoco serale per i minori di dieci anni, ha introdotto il regime di semilibertà per i preadolescenti a partire dai dieci anni e la loro detenzione a partire dai dodici.
Di fronte all’involuzione antigarantistica che, alimentata dalla questione sicurezza, sta attraversando gli ordinamenti giuridici contemporanei, va ribadito con forza che la sicurezza delle nostre città, dei nostri quartieri, delle nostre case non potrà mai scaturire dalla realizzazione di doppi livelli di cittadinanza per gli inclusi e per gli esclusi, ma solo dall’intransigente rispetto dei diritti fondamentali della persona e dalla rivitalizzazione del legame sociale: sicurezza è solidarietà, non segregazione.
i costi individuali causati dalla normativa proibizionistica sono enormi: dal 1990 ad oggi le morti per overdose si aggirano intorno al numero di mille all’anno; pi in generale, le sofferenze individuali e la marginalizzazione sociale dei tossicodipendenti attribuiscono alla loro condizione il profilo di una moderna capitis deminutio, un risultato di fatto che non dovrebbe essere indifferente al sedicente partito della vita;
Di fronte al fallimento delle strategie proibizionistiche incentrate sulle sostanze, le politiche di riduzione del danno, sperimentate con successo in molti Paesi, comportano l’assunzione di una diversa prospettiva proiettata sull’interesse della persona.
Alla base di tali politiche stanno non solo l’abbandono della poco ingenua illusione secondo la quale vietare equivale ad impedire, un’illusione figlia di culture politiche paternalistico-reazionarie, ma anche il ripudio del modello anti-solidaristico della liberalizzazione selvaggia: in questo senso, la riduzione del danno è prima di tutto una politica sociale, che fa leva sulla responsabilizzazione personale dell’assuntore di droghe per consentirgli il pieno godimento dei diritti di cittadinanza e non per esonerare la collettività e le istituzioni pubbliche dall’assolvimento dei doveri di solidarietà e dalle funzioni di assistenza. Il fulcro delle politiche di riduzione del danno consiste nella diversificazione della disciplina delle droghe leggere e delle droghe pesanti.
Le droghe leggere, assimilate a quelle pesanti solo artificialmente, ossia dal trattamento giuridico, vanno escluse dall’area della rilevanza penale e sottoposte ad un regime di controlli amministrativi sulla produzione e sulla vendita analogo a quello tipico delle droghe legali: ad interventi fondati su tecniche di informazione/persuasione vanno affidate le strategie di contenimento. Per le droghe pesanti, è necessario mettere in campo una serie di interventi mirati a rompere la solitudine in cui viene a trovarsi il tossicodipendente, interventi già sperimentati in Italia ed altrove quali l’istituzione di luoghi di consumo protetto dello stupefacente, l’adozione di programmi di scambio delle siringhe, la somministrazione di metadone e di altri farmaci sostitutivi, etc.. E’ necessario, poi, avviare una cauta sperimentazione di interventi di somministrazione controllata di eroina; l’esperienza positiva di vari Paesi e, in particolare, della Svizzera (dove la somministrazione controllata di eroina avviene sulla base di una prescrizione medica e solo per i tossicodipendenti gravi), rendono ormai indifferibile l’avvio anche nel nostro Paese di tale sperimentazione, nell’ottica e con l’approccio proprio delle politiche di riduzione del danno, che non aspirano ad offrire soluzioni definitive alla questione droga, ma solo all’adozione di una pragmatica strategia di contenimento: una strategia capace di ridurre i danni causati dalla droga alle persone degli assuntori e di restringere l’area dei comportamenti criminali indotti dall’uso di stupefacenti.