Intervento di Livio Pepino

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CONTINUO A VOLERE LA LUNA

 

 

 

 

1. Non sarei sincero se omettessi di dire che alcune delle posizioni che stanno emergendo nel dibattito congressuale non mi convincono affatto e mi paiono anzi pericolose per il futuro e per l'esistenza stessa di Magistratura democratica.

Non mi riferisco al senso di insoddisfazione che traspare pressoché in tutti gli interventi. Considero, anzi, questa insoddisfazione un dato positivo, il segno che Magistratura democratica è sana. Sarebbe, infatti, irresponsabile essere soddisfatti all'indomani di un insuccesso elettorale e a fronte di una partecipazione a questo congresso assai più modesta di quanto fosse lecito attendersi. E tanto più ciò sarebbe irresponsabile nella situazione che attraversano il Paese, il suo assetto politico istituzionale, il sistema giustizia, la magistratura.

Condivido, dunque, l'insoddisfazione, ma trovo inadeguate – e talora sbagliate – talune delle analisi e delle proposte che da essa muovono.

Mi riferisco, in particolare, a quella posizione che – cito passi di interventi congressuali e precongressuali - imputa la crisi di Md «al suo essere rimasta legata a idee e impostazioni valide (forse) 30 anni fa ma oggi incomprensibili a gran parte dei colleghi e soprattutto ai giovani» e che sollecita, conseguentemente, una trasformazione di Md in una sorta di sindacato corporativo attento soprattutto alla «rivendicazione di condizioni di lavoro più adeguate e alle esigenze, alle sollecitazioni, ai bisogni quotidiani dei colleghi».

é – questa - una posizione che non nasce oggi e che ha trasparenti ascendenze nel clima politico che ci circonda da oltre un decennio (con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti...). Ovviamente è una posizione rispettabile e con cui misurarsi, ma, lungi dal considerarla il perseguimento di un «sogno» e men che meno di una «eresia», la ritengo una impostazione inadeguata a rispondere alle sollecitazioni che la realtà ci propone e a ridefinire, alla luce di tali esigenze, il profilo di Magistratura democratica.

 

2. Quindici anni fa Pino Borrè si chiedeva: «Perché è nata Md? Personalizzando un po’ potrei dire: perché sono entrato in Md?». E rispondeva: «Credo che la risposta stia nello stretto e indissolubile intreccio di due ragioni complementari. Da un lato, il rifiuto del conformismo, come gerarchia, come logica di carriera, come giurisprudenza imposta dall'alto, in una parola come passività culturale; dall'altro, il sentirsi dalla parte dei soggetti sottoprotetti, e sentirsi da questa parte” come giuristi, con le risorse e gli strumenti propri dei giuristi».

Ecco, io credo che ancora oggi – come nel 1964, come nella rifondazione del 1970, come quindici anni fa - il punto fondamentale della riflessione sul ruolo di Md e sulla ragione della sua esistenza stia qui e penso che di questo, prima di tutto, dovremmo discutere.

Non è un discorso retro ma una questione attualissima. La sintetizzo in poche domande. Nel sistema giustizia e nella magistratura sono venuti meno il conformismo, la separatezza, il formalismo, l'attrazione irresistibile ad essere funzionari cui faceva riferimento Borrè (e che sono stati immortalati in pagine indimenticabili di Italo Calvino o in canzoni affascinanti di Fabrizio De André)? non ci sono più nel nostro felice Paese sottoprotetti e marginali? la giustizia e la giurisprudenza sono diventate ovunque un veicolo virtuoso di promozione e di uguaglianza?

Se rispondiamo di sì, allora hanno ragione i sostenitori della posizione che ho ricordato in apertura: Magistratura democratica ha esaurito il suo compito e possiamo felicemente confluire nella riposante «casa dei magistrati progressisti», assumendo nuovi e meno eretici obiettivi. Ma se rispondiamo di no, quella posizione rivela tutta la sua inadeguatezza e la critica della realtà, il rifiuto di ogni ottica corporativa, l'attenzione costante al "punto di vista esterno" restano il proprium di Md: ciò – ricordiamocelo bene - che se non facciamo noi non fa nessun altro (almeno nel panorama attuale della magistratura, in attesa che nascano nuovi soggetti ad impugnare il testimone che qualcuno vorrebbe abbandonare).

La mia convinzione – superfluo dirlo – è che la caduta delle ideologie non abbia fatto venir meno disuguagliane e ingiustizie; che nella magistratura si ripropongano vecchi assetti di stampo precostituzionale; che il formalismo giurisprudenziale – quello che ignora gli interessi materiali sottostanti alla questione giuridica e considera l'interpretazione alla stregua di un'operazione astratta, simile alla soluzione di un gioco enigmistico – continui ad imperare, come ben sanno, tra gli altri, i migranti e i soggetti più deboli. Di qui la convinzione che il ruolo e l'obiettivo indicati da Borrè restino la ragion d'essere di Magistratura democratica.

Vorrei evitare fraintendimenti: non v'è in ciò alcun atteggiamento spocchioso o elitario né alcuna sottovalutazione di altre fondamentali esigenze, dall'efficienza del servizio giustizia alle condizioni di lavoro dei magistrati. Perseguire questi obiettivi è doveroso e urgente e va fatto con energia e passione insieme alla generalità dei magistrati, creando alleanze con altri gruppi, mettendo alla prova l'Associazione nazionale magistrati, ma non è il proprium di Magistratura democratica.

 

3. Va, dunque, tutto bene e l'insuccesso elettorale e la crisi di partecipazione sono frutto del solito destino cinico e baro?

Ovviamente non è così: abbiamo fatto errori e abbiamo avuto (abbiamo) inadeguatezze anche gravi (egualmente diffuse a livello centrale e sul territorio), ma se è condivisibile l'analisi sin qui svolta, allora l'interpretazione di quanto è accaduto e le vie di uscita da praticare devono essere coerenti. Il tempo mi impone di limitarmi ad alcuni rilievi e vi prego, dunque, di scusare lo schematismo.

Se viviamo un momento di difficoltà è perché abbiamo, qualche volta, dimenticato le nostre radici e inseguito il miraggio del consenso facile. Non abbiamo perso perché abbiamo osato troppo ma perché abbiamo osato troppo poco, perché si è diffusa anche al nostro interno l'insana convinzione che gli strappi disorientano i colleghi, che il manovratore va disturbato con garbo, che le idee è meglio portarle avanti nei ministeri piuttosto che attraverso lo scontro negli uffici, nell'autogoverno, nella società.

Se viviamo un momento di difficoltà è perché, a volte, abbiamo smarrito la stella polare secondo cui – come ci ha ricordato ieri Angelo Caputo - il consenso è un mezzo e non un fine. Sia chiaro: la vocazione minoritaria è una sciocchezza e - come direbbe Catalano - «è meglio avere più voti che averne di meno». Ma il consenso non è tutto e, in ogni caso, è cosa diversa dall'egemonia. Da quando sono andato al Consiglio superiore rifletto su un dato: il Consiglio che più ha cambiato la magistratura è stato, per unanime riconoscimento, quello della prima metà degli anni ottanta. Ebbene, in quel Consiglio, gli eletti di Md erano solo tre su venti (e per di più isolati): ma essi sono stati capaci di egemonia, anche nelle sconfitte, perché metro di misura di tutti...

Io non credo che il nostro insuccesso sia stato determinato dal fatto che i colleghi non hanno capito il nostro messaggio. Ciò che i colleghi hanno capito sin troppo bene è il fatto che talora tra quel messaggio e alcuni comportamenti emersi al nostro interno non c'è stata coerenza, con conseguente appannamento della nostra diversità. é questo che ci ha punito, non le idee. Lasciatemelo dire: i colleghi seri non si accontentano di sentir dire che «bisogna stare negli uffici» quando alle parole non seguono i fatti e avvertono, per restare al nostro congresso, quando prevale il confronto (anche aspro) delle idee e quando invece prevalgono gli accordi, magari su base territoriale, tra portatori di deleghe (non importa se vecchi o giovani...).

 

4. Devo concludere e rinvio, dunque, ad altra occasione la (pur ineludibile) riflessione sui cambiamenti necessari in Md.

Conosco l'obiezione a quanto ho detto, un'tante volte sentita in questi ultimi anni, dominati da un pensiero debole che sempre più spesso è diventato pensiero unico, ed emersa anche qui. Utilizzando in modo sprezzante la bellissima espressione che dà il titolo all'ultimo libro di Pietro Ingrao ci viene detto: «volete la luna».

Ebbene, accolgo la provocazione. Io continuo a volere la luna. Credo che Magistratura democratica debba continuare a volere la luna. é, soprattutto in questo contesto politico, il solo esercizio di realismo che conosco. Se smettessimo di volere la luna e ci adagiassimo nelle braccia accoglienti di un rassicurante sindacalismo corporativo potremmo forse (anche se ne dubito) guadagnare qualche voto, ma sarebbe la fine di Magistratura democratica, e – quel che più importa - la fine delle speranze di emancipazione e di riscatto riposte nella giurisdizione.

Io sono certo che, nonostante alcuni sbandamenti emersi in questi mesi e in questi giorni, Magistratura democratica continuerà a volere la luna. E forse un giorno la raggiungerà. Non la raggiungerò io e neppure quelli della mia generazione ma, forse, la raggiungeranno, non lasciandosi piegare da momentanei e sempre possibili insuccessi, quei giovani (non i giovani tout court ma quei giovani), donne e uomini, che sapranno e vorranno raccogliere un testimone che, senza alcuna resistenza, ed anzi con grande speranza e con serena fiducia consegniamo loro.

 

 

Livio Pepino

13 02 2007
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