CRONACHE DAL CONSIGLIO Elisabetta Cesqui, Vincenza Maccora, Livio Pepino, Fiorella Pilato NOTIZIARIO N. 7 aprile 2007 OGGETTO: PLENUM 4, 5, 11 e 18 aprile 2007 e LAVORI DI COMMISSIONE
- Dal plenum
- L’impugnativa della sentenza del T.A.R. Lazio sulle sedi disagiate;
- Le nomine al massimario della Corte di Cassazione;
- Un trasferimento sbagliato;
- Prevale ancora l’anzianità nei trasferimenti in appello;
- Conferimenti di incarichi direttivi e semidirettivi;
- Una significativa nomina per un posto di presidente di sezione del Tribunale di Milano.
- Dalle Commissioni
Dal plenum 1. L’impugnativa della sentenza del T.A.R. Lazio sulle sedi disagiate (torna all'indice) Il Consiglio, nella seduta del 5 aprile 2007, ha deliberato di impugnare davanti al Consiglio di Stato, richiedendone in via cautelare la sospensiva dell’esecuzione, la sentenza 845 del 25 ottobre 2006 (depositata in Segreteria il 5 febbraio 2007) di annullamento da parte del TAR del Lazio della delibera consiliare con cui il 29 settembre 2005 furono pubblicate, ai sensi dell’art. 5 L. 133/1998, le sedi da assegnare ai magistrati che avevano maturato un quinquennio di permanenza in sede disagiata, nonché ogni altro atto connesso, presupposto e consequenziale, compresi i provvedimenti d’assegnazione delle sedi agli aspiranti. Infatti, all’epoca il CSM ritenne, nel pubblicare i posti per trasferimento ordinario di primo grado, di continuare ad applicare la legge secondo il testo previgente, escludendo che le modifiche introdotte all’art. 5 dall’art. 14-sexiesdecies D.L. 115/2005 (convertito dalla L. 168/2005) potessero riguardare chi aveva avuto assegnata una sede disagiata prima della sua entrata in vigore. Secondo il TAR, la disposizione ha la duplice finalità di far cessare "un’evidente alterazione dei criteri di assegnazione delle sedi da attribuire ai magistrati nei concorsi ordinari di trasferimento e di razionalizzare il meccanismo dei trasferimenti...con innegabili benefici in termini di una migliore funzionalità del sistema e del buon andamento dell’azione della Pubblica Amministrazione". Inoltre, pur avendo riconosciuto nella sua sentenza una certa ambiguità del testo normativo (perché la dizione sedi pubblicate non è univoca ed anzi ben potrebbe essere riferita ai posti pubblicati negli elenchi delle sedi disagiate), ha negato validità alla soluzione interpretativa accolta dalla delibera consiliare, adducendo che "lo stesso art. 1, 3° comma, l. n. 133 del 1998, riferisce la pubblicazione delle sedi disagiate non ai ‘posti’ ma all’‘elenco’, mentre l’art. 14-sexiesdecies riguarda, come puntualizzato dai ricorrenti, i ‘trasferimenti dei magistrati da sedi disagiate"; ha escluso l’esistenza delle ragioni teleologico-sistematiche ed equitative indicate sia perché l’enfasi posta sul ‘sinallagma’ e sui profili ‘consensualistici’ della vicenda mira - più che a selezionare un’argomentazione utilmente spendibile in sede di interpretazione del nuovo precetto - a sostenere l’esistenza di un vincolo per il legislatore, avente l’effetto di impedire la violazione del menzionato ‘accordo’ a tutela di pretesi ‘diritti quesiti’ (o in via di acquisizione), sia perché il beneficio è stato riconosciuto anche agli uditori giudiziari e ai magistrati già in servizio presso sedi dichiarate solo successivamente disagiate, sia perché la norma istitutiva del beneficio ha "portata organizzativa e non comporta l’insorgenza di diritti soggettivi propriamente detti", sicché il legislatore ben può sopprimere l’incentivo "in dipendenza di una rinnovata ponderazione fattuale con l’unico limite della necessità di rispettare i vincoli derivanti da norme di rango costituzionale". Il T.A.R. ha, quindi, concluso che la voluntas legis e...la corretta qualificazione giuridica dell’incentivo inducono a ritenere l’immediata applicazione della nuova disposizione e che non sussistono dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 14-sexiesdecies citato, negando sia "un principio costituzionale di affidamento (o di certezza) in ordine agli incentivi non economici connessi al rapporto di servizio dei magistrati" sia l’irragionevolezza di una norma che serve a ridurre "gli effetti derogatori dispiegati dalla l. n. 133/98 sul regime ordinario dei tramutamenti, traducendosi un (parziale) ripristino della normalità". La sentenza del giudice amministrativo è stata giudicata difficilmente attaccabile dall’Ufficio Studi, investito della richiesta di un parere a seguito della pubblicazione della decisione. Tuttavia il Consiglio ha deliberato, all’unanimità, d’impugnare la sentenza del TAR, auspicando che il Consiglio di Stato si pronunci rapidamente (almeno in sede di sospensiva), perché l’incertezza sulle regole da applicare - conseguente alla diversità di orientamenti del CSM e della giustizia amministrativa - non causi ulteriori ritardi nelle procedure di trasferimento, aggravando situazioni di già notevole sofferenza. Proprio dall’approfondita riflessione dell’Ufficio Studi emergono, del resto, argomenti idonei a difendere adeguatamente la soluzione interpretativa consiliare, certamente opinabile, ma ispirata a principi di ragionevolezza e di uguaglianza. Infatti, è stato ricordato come la giurisprudenza amministrativa abbia più volte ritenuto legittima l’estensione del beneficio della precedenza assoluta anche a coloro che erano già nella sede, solo successivamente individuata come disagiata, "in funzione premiante della buona volontà e dello spirito di adattamento e di sacrificio dimostrato dal magistrato nel permanere volontariamente in una sede disagiata, così evitando, tra l’altro, pericolosi vuoti di organico in regioni più esposte sul fronte della criminalità organizzata". Inoltre, la sentenza del TAR non ha fornito un’adeguata spiegazione della legittimità del mutamento di disciplina e, in particolare, "perché non si debba tener conto delle aspettative (non trattandosi, chiaramente, di diritti acquisiti) di una certa categoria di magistrati alla quale, fino alla l. n. 16872005, non era opponibile l’anzianità di servizio ai fini della derogabilità dei benefici concessi con l. 133/1998, categoria che, per giunta, sulla concessione e sul mantenimento di quei benefici aveva riposto un qualche affidamento". Dell’esistenza di un principio generale di tutela dell’affidamento anche nel settore del diritto amministrativo vi è ampia traccia nell’elaborazione giurisprudenziale: la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 291/2003, ha affermato che il divieto di retroattività della legge (e quindi dei suoi effetti), pur non essendo stato elevato a dignità costituzionale per materie diverse da quella penale, costituisce comunque "fondamentale valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento, cui il legislatore ordinario deve di regola attenersi"; e tale insegnamento trova preciso ed ulteriore sviluppo negli orientamenti della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato. Quanto agli innegabili benefici in termini di una migliore funzionalità del sistema e del buon andamento dell’azione della Pubblica Amministrazione, che il TAR riconosce senz’altro alla modifica normativa, va segnalato che la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 343/2000, ha ritenuto conformi alla Legge fondamentale gli incentivi e i benefici attribuiti dalla L. 133/1998, sul rilievo che "le norme in esame, lungi dal disattendere l’obiettivo del buon andamento nell’organizzazione degli uffici, mirano proprio alla sua realizzazione, proponendosi alla constatata difficoltà di ricoprire le sedi di cui trattasi". Tenendo conto dell’ambivalenza del dato letterale dell’art. 14-sexiesdecies D.L. 115/2005, sembra pacifico che il principio di tutela dell’affidamento, per operare utilmente nel caso di specie, non deve assurgere al rango di principio costituzionale inderogabile, in relazione al quale valutare la conformità a Costituzione delle leggi, ma deve rappresentare, più semplicemente, un canone ermeneutico idoneo a sciogliere i dubbi dell’interprete in presenza di un testo normativo ambiguo sotto il profilo letterale. Una volta ricostruito con puntualità dall’Ufficio Studi il principio di affidamento come preciso canone ermeneutico, sembra ragionevole concludere che esso, a fronte di un testo normativo ambivalente, non può che indurre l’interprete ad accogliere la soluzione che faccia salve le aspettative legittimamente insorte, perché generate da una legge passata indenne dal vaglio di costituzionalità, ed in relazione alle quali sono stati liberamente assunti comportamenti individuali obiettivamente utili per il buon andamento degli uffici giudiziari e la cui persistente utilità non è discutibile, proprio adesso che la stasi dei concorsi in magistratura apre nuovamente la prospettiva di paurosi vuoti di organico e quindi di drammatiche disfunzioni operative degli uffici situati nelle aree più periferiche e difficili del Paese. L’obbiettivo essenziale da perseguire, infatti, rimane ancora quello di assicurare attraverso adeguati incentivi una maggiore stabilità nella copertura delle sedi disagiate, evitando gli effetti negativi di un continuo ricambio, mentre d’altra parte una buona amministrazione della giustizia nelle sedi disagiate del Sud ha bisogno oggi più che mai anche dell’apporto di professionalità già mature, senza continuare a fare esclusivo affidamento sulla massiccia utilizzazione dei magistrati più giovani e inesperti. 2. Le nomine al massimario della Corte di Cassazione (torna all'indice) Con delibera del 4 aprile 2007, è stato disposto il trasferimento di ventitré magistrati al massimario presso la Corte di Cassazione. Si tratta di posti per magistrati di tribunale, ma particolarmente ambiti: forse perché consentono a magistrati dotati di "spiccata attitudine allo studio e alla ricerca" di approfondire la propria preparazione, in un periodo in cui i ritmi di lavoro nella trincea degli uffici di merito sono diventati talmente massacranti da rendere l’impresa sempre più difficile; ma anche perché tradizionalmente sono stati percepiti e vissuti (finché era possibile il percorso graduale dal massimario di tribunale a quello d’appello) come canale interno privilegiato per il futuro accesso alle funzioni di legittimità. In realtà, tutti i posti di giudice a Roma sono assai ambiti e i relativi bandi registrano sempre centinaia di domande; ma, a differenza dei posti di merito, quello del massimario è l’unico di primo grado per il quale vale soprattutto il profilo attitudinale. Definire i concorsi per il massimario è quindi, per il Consiglio, una delle imprese più ardue, perché occorre selezionare i "migliori" fra centinaia di aspiranti disponendo di un materiale conoscitivo che si è rivelato insufficiente e inadeguato per valutazioni oggettive e davvero coerenti alle storie professionali di ciascuno. La scelta non è stata facile, dato l’elevatissimo numero di domande e quindi di profili professionali da esaminare e comparare alla stregua dei criteri indicati dalla circolare e sulla base degli elementi di valutazione disponibili; tanto più che la platea di aspiranti notoriamente bravi e bravissimi era talmente ampia, da moltiplicare le difficoltà di comparazione e da rendere complicatissima la convergenza su alcuni nomi anziché su altri, nella tensione di trovare un modulo di valutazione omogeneo delle attitudini specifiche fra chi - togato e laico - è portatore di diverse impostazioni culturali e quindi di diverse sensibilità. La tensione fra la volontà di affermare il proprio punto di vista e quella di non chiudersi entro il proprio orizzonte ha comportato anche momenti di scontro e di crisi, all’interno della commissione, quando si trattava di attribuire all’uno o all’altro aspirante un mezzo opinabilissimo punto in più o in meno, ed ha richiesto uno sforzo di comprensione reciproca, come deve accadere per qualunque decisione di un organo collegiale. Per garantire trasparenza delle scelte e vincere logiche amicali o geografiche (spesso più forti di quelle correntizie) in commissione si era convenuto d’interpretare e precisare preliminarmente i criteri per l’attribuzione dei punteggi indicati dalla circolare che, quanto ai profili più delicati delle attitudini e anche del merito, lasciavano ancora uno spazio troppo ampio di discrezionalità. Sono stati dunque discussi e adottati alcuni criteri interpretativi della circolare, avendo in mente l’identikit del magistrato ideale per il massimario ma sapendo, realisticamente, di dover aspirare almeno a scegliere persone in grado di massimare sentenze e fare dignitose ricerche giuridiche. Parametro principale di valutazione doveva essere l’attività giudiziaria svolta, da esaminare nella sua idoneità a dimostrare una "spiccata inclinazione allo studio e alla ricerca", perché l’attività professionale può dimostrare doti diverse ed eterogenee, non tutte ugualmente rilevanti agli stessi fini: per esempio, una notevole capacità organizzativa o una spiccata attitudine a padroneggiare questioni di fatto, fondamentali per altri ruoli giudiziari, non sono rilevanti per l’assegnazione al massimario. Partire dal lavoro negli uffici si è rivelato facile da dire, ma difficile da fare quando la "spiccata inclinazione allo studio e alla ricerca" ricavabile dall’esercizio del mestiere deve essere oggetto di dimostrazione specifica. Sarebbe stato possibile ricavarla dai pareri dei consigli giudiziari e da provvedimenti allegati alla domanda. Invece, per partecipare al concorso per il massimario non è richiesto un recente parere del C.G. e i "titoli" prodotti dagli aspiranti erano costituiti per lo più da pubblicazioni (articoli, monografie, relazioni) e incarichi d’insegnamento. Ecco allora che l’ottimo magistrato che scrive soltanto sentenze, quello capace di studiare e risolvere ogni questione giuridica posta dal processo e che ha maturato nel tempo una professionalità indiscussa fra i colleghi, è mortificato in partenza dal fatto che, per avventura, la sua ultima valutazione a fini di progressione in carriera risalga ad anni lontani e manchino quindi anche suoi provvedimenti "a campione" da valutare. In sostanza, chi non ha un parere recente del consiglio giudiziario si trova privo proprio dell’attestato della maturazione professionale dimostrata nel corso degli ultimi anni, quelli decisivi ai fini di una compiuta e corretta valutazione. Inoltre, in ragione delle competenze specifiche del massimario, i titoli scientifici hanno un’indubbia importanza. Proprio per non sminuire il lavoro giudiziario, tuttavia, sono stati valutati unitamente alle statistiche, nella convinzione che la produzione scientifica possa essere qualcosa di più per il magistrato, ma non possa essere mai un sostitutivo del lavoro giudiziario. Pertanto sono stati presi in considerazione i titoli scientifici soltanto per chi aveva statistiche medio-alte e, siccome il bando prevedeva l’onere di produrre le statistiche comparate, è stato "penalizzato" nella valutazione di merito anche chi le aveva magari alte ma non aggiornate (sul rilievo di non poter valutare appieno il rapporto fra attività giurisdizionale e attività extragiurisdizionale negli anni mancanti, ovviamente i più recenti e significativi): correttivo peraltro "debole" e assai discutibile, perché tutti sappiamo quanto sia poco affidabile il mero dato statistico, non illustrato e rapportato alla qualità degli affari. In questo quadro, era possibile soltanto tendere onestamente ad applicare a tutti le stesse regole. Alla fine, rimane la convinzione di non essere forse riusciti a selezionare davvero i più bravi, dato il difetto a monte di strumenti adeguati di conoscenza, ma di aver scelto un buon numero di magistrati di ottimo livello e tutti, comunque, all’altezza del compito che li attende. L’esperienza ha dimostrato però che le regole per il concorso al massimario devono essere cambiate, per rendere possibile un’effettiva valutazione comparativa e per condurla, come sarebbe giusto, sulla qualità del lavoro giudiziario. Infatti, l’abitudine e l’attitudine a confrontarsi con il caso pratico e ad individuare le questioni di diritto rilevanti richiedono la conoscenza diretta e recente del funzionamento concreto del processo civile e penale, nonché dei fenomeni sociali e giuridici che ruotano intorno al processo; esse si acquistano soltanto sul campo e sono requisiti imprescindibili anche per la massimazione delle sentenze e la ricerca mirata a redigere le relazioni per le Sezioni Unite. Questo spiega, del resto, perché le funzioni del massimario non sono fuori ruolo, essendo accessorie e strumentali a quelle giurisdizionali di legittimità. 3. Un trasferimento sbagliato (torna all'indice) Sappiamo tutti che la mobilità dei magistrati è diventato un tema spinoso e scatena una conflittualità difficile da gestire, mettendo gli uni contro gli altri colleghi che accumulano con sacrificio punteggi aggiuntivi svolgendo funzioni in sedi disagiate, altri con moltissimi anni di anzianità che lavorano ancora in sedi lontanissime da casa o sono costretti al pendolarismo perpetuo, fuori ruolo che vogliono rientrare nella giurisdizione senza essere eccessivamente penalizzati. In questo quadro, i trasferimenti extra ordinem per ragioni di salute (previsti dalla L. 104/1992 e regolati dalla circolare 15098/1993 e succ. mod. dal paragrafo VIII al paragrafo IX ter compreso) frustrano le aspettative di tanti magistrati, sottraendo posti ambiti che potrebbero essere messi a loro disposizione. E' doveroso dunque per il Consiglio, che deve vagliare con speciale attenzione ogni situazione che comporti privilegi per la mobilità, operare sempre nell'assoluto rispetto di regole che, come tutte quelle derogatorie, sono di stretta interpretazione e applicazione. Invece, il 4 marzo la maggioranza consiliare ha disposto, con i soli voti contrari dei consiglieri di Md e dei Movimenti, un trasferimento extra ordinem che sembra in palese contrasto con le regole vigenti e quelle della ragionevolezza più elementare. Trattandosi di una pratica segretata, non farò il nome del magistrato interessato, limitandomi a segnalare la vicenda e i motivi della nostra opposizione. Questo magistrato ha chiesto il trasferimento presso il tribunale ubicato nel luogo di residenza della sua famiglia e di quella d'origine da un tribunale poco distante, deducendo e documentando la qualifica di portatrice di handicap grave della madre non convivente e sostenendo di essere l'unico della famiglia in grado di prestarle assistenza, per lo stato di salute del padre; e tanto è bastato alla maggioranza per accontentarlo. Le alterazioni dello stato di salute dei genitori e dei fratelli del magistrato rilevano quando nella sede richiesta il magistrato intenda ripristinare o avviare una situazione di assistenza continuativa, in assenza di altro soggetto a ciò idoneo e comunque sempre che il trasferimento risponda all'esigenza di prestare "nella sede richiesta" l'assistenza necessaria per la cura, la correzione, l'eliminazione o la riduzione degli effetti della menomazione. Significa che non basta il presupposto dell'accertato stato di handicap grave del familiare, ma occorre valutare anche, in concreto e caso per caso, se la prelazione assoluta (o i punteggi aggiuntivi) e l'accesso al concorso virtuale (sotto il profilo dell'urgenza) siano davvero giustificati dalla situazione. Nel nostro caso, anzitutto, l'intervento assistenziale "permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione" della portatrice di handicap può essere certamente prestato dal marito convivente, padre del magistrato, la cui pretesa inidoneità non può essere argomentata dalla certificazione medica prodotta (che attesta soltanto una patologia "minore" in fase di stabilità clinica, efficacemente tenuta sotto controllo con terapia farmacologia, che notoriamente consente una vita - anche lavorativa - del tutto normale a un uomo poco più che sessantenne). Inoltre, per prestare assistenza alla madre malata (o per aiutare il padre a prestarlo), il trasferimento non sarebbe stato affatto indispensabile per il magistrato, già autorizzato a risiedere a casa sua proprio per la breve distanza dalla sede lavorativa, che gli consente rapidi spostamenti: in sostanza, non aveva bisogno di trasferirsi "nella sede richiesta" per la semplice ragione che già coincideva con la sede dell'effettiva residenza sua e della madre da assistere. Infine, l'asserita necessità del trasferimento appare incoerente con alcuni elementi di fatto, capaci di smentirla ulteriormente. Infatti, il magistrato aveva chiesto e ottenuto l'autorizzazione a un incarico d'insegnamento universitario di ben 35 ore, da svolgere nello stesso periodo in cui alla madre, già ammalata gravemente, era riconosciuta la qualifica di portatrice di handicap grave: incarico cui non risulta abbia poi rinunciato, benché comportasse uno spostamento frequente verso il capoluogo di regione, assai più distante della sede di lavoro dal luogo di residenza. Allo stesso modo, non risultano sue dimissioni dal consiglio giudiziario, di cui fa parte e che nel capoluogo si riunisce (e la cui attività, gravosa, è totalmente equiparata a quella lavorativa...). Allora ecco confermato che il suo impegno d'assistenza non richiede affatto una presenza permanente e continuativa nel luogo di residenza, ma è sicuramente compatibile col fatto di dover percorrere un certo tragitto per raggiungere l'ufficio come col fatto di doverne percorrere uno doppio per insegnare all'università e svolgere il suo ruolo nel consiglio giudiziario. Tante buone ragioni, dunque (e senza nemmeno entrare nel merito quanto al diritto alla prelazione assoluta o ai punteggi aggiuntivi), per rigettare la domanda, in coerenza col concetto di un autogoverno rispettoso delle regole e consapevole di dover bilanciare la dovuta comprensione per le difficoltà familiari con le sacrosante esigenze di mobilità dell'intero corpo della magistratura. Non è giusto confondere ciò che è più comodo per un magistrato con ciò che è assolutamente necessario per garantire assistenza a un ammalato: pena la credibilità stessa dell'organo di autogoverno. 4. Prevale ancora l’anzianità nei trasferimenti in appello (torna all'indice) Spesso si afferma che per l'attribuzione di determinate funzioni il criterio dell'anzianità va superato, degradando a parametro di valutazione residuale utilizzabile solo in caso di pari idoneità, giacché l'esigenza primaria è mettere la persona giusta al posto giusto con riguardo alle esigenze della giurisdizione. Perfino per i tramutamenti orizzontali, l’anzianità è criterio che cede a quello della migliore funzionalità dell'ufficio attraverso il riconoscimento di punteggi aggiuntivi per le funzioni specialistiche svolte o per particolari approfondimenti della materia da trattare, e più in generale per le funzioni omologhe. A maggior ragione il discorso deve valere per l'attribuzione di funzioni d'appello, perché è inaccettabile che, se il sistema consente ai bravi di restare nella trincea difficilissima del primo grado, il loro lavoro non sia poi vagliato da colleghi altrettanto bravi. Inoltre, se tutte le funzioni hanno pari valore e dignità, è anche vero che l'organizzazione non piramidale della magistratura (che ne deriva e alla quale siamo tanto affezionati) deve comportare che ogni passaggio a una funzione "superiore" non sia vissuta come una promozione cui si abbia diritto per il solo trascorrere del tempo. Certo, ogni valutazione comparativa è a rischio di errore e opinabile, basata com'è sulle carte e non sull'esperienza diretta, e va condotta quindi con prudenza e attenzione; ma è possibile perché esistono i pareri dei capi degli uffici e dei consigli giudiziari (ormai assai più puntuali che in passato), i provvedimenti a campione, le statistiche rapportate alla qualità e difficoltà degli affari nonché alle condizioni di vita e di lavoro, che disegnano, eccome, le diverse storie professionali dei magistrati e rivelano elementi idonei a orientare correttamente le valutazioni di attitudini e merito. Almeno, se si vuole coglierli. Il 18 aprile il plenum si è diviso nel ballottaggio fra due aspiranti ad un posto di consigliere della Corte d'Appello a Genova, che aveva già diviso a metà la commissione determinando due diverse proposte (quella di Pilato e quella di Ferri). Da una parte vi era una collega indicata dal consiglio giudiziario come uno dei più validi giudici del Tribunale di Genova, che in tutto l'arco della carriera si è dimostrata in possesso di notevoli doti di cultura e di approfondita preparazione giuridica, autrice di numerose pubblicazioni di diritto internazionale e comparato, dotata di un profilo professionale caratterizzato da acutezza d'ingegno e vastità d'interessi, sempre punto di forza della sezione nelle camere di consiglio, cui partecipa in modo intelligente e appropriato, capace di un lavoro definito di qualità superiore alla media grazie anche a una cura costante dell'aggiornamento professionale. Quanto alla produttività, superiore alla media negli anni più recenti, il parere espresso in occasione della nomina a magistrato di cassazione avvertiva che le statistiche comparative non facevano giustizia della sua laboriosità, sia perché la sua attività non era paragonabile a quella di colleghi che avevano un ruolo disomogeneo né erano incaricati della presidenza di un collegio, sia perché all'epoca la quantità del lavoro svolto risentiva di un lungo periodo di assenza per seri motivi di salute. Dall'altra parte una collega diligente e laboriosa, con statistiche nella media dell'ufficio e l'ottima abitudine di depositare i provvedimenti nei termini, dotata di una buona preparazione generale e che partecipa alle camere di consiglio in modo scrupoloso e sensato, ma con interventi sporadici. Inoltre il parere espresso dallo stesso consiglio giudiziario per la sua nomina a magistrato di cassazione era stato piuttosto problematico e aveva richiesto l'audizione del nuovo presidente di sezione per superare il peso di alcuni atteggiamenti negativi segnalati per il periodo pregresso dal precedente presidente e affermare che era diventata consapevole della necessità di aggiornamento professionale e di verifica continua della propria preparazione, mentre in passato era stato necessario in sede di discussione in camera di consiglio sollecitarla a rivedere le sue relazioni aggiornando lo studio delle tematiche giuridiche. Ci sembrava che, nel giudizio di comparazione, alla prima spettasse un punto in più per il riconoscimento di un valore professionale che durante l'intera carriera non ha mai registrato la minima defaillance e si è espresso soprattutto col contributo prestato in camera in consiglio; ne conseguiva un profilo di maggiore capacità attitudinale di questa collega rispetto all'altra proprio nella prospettiva specifica delle funzioni da svolgere in appello. Invece, la maggioranza consiliare ha ritenuto equivalenti i profili professionali delle due aspiranti (con i voti di MI, Unicost e laici di destra, astenuto il procuratore generale Delli Priscoli mentre Mancino non ha partecipato al voto, contro i voti di Md, Movimenti e laici di sinistra), imponendo con la forza dei numeri il criterio dell'anzianità in ruolo in ragione di una collocazione migliore della seconda nella graduatoria del medesimo lontano concorso d'accesso alla corporazione (era settantaseiesima e l'altra ottantaduesima). Senza altri commenti. 5. Conferimenti di incarichi direttivi e semidirettivi (torna all'indice) Sono stati conferiti all’unanimità i seguenti incarichi direttivi e semidirettivi:
- Presidente del Tribunale dell’Aquila al dott. Giovanni Novelli, Presidente del Tribunale di Avezzano;
- Presidente della sezione lavoro del Tribunale di Milano al dott. Francesco Ignazio Frattin, giudice presso la stessa sezione del Tribunale;
- Procuratore aggiunto della Repubblica di Lecce al dott. Ennio Cillo, sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Lecce.
6. Una significativa nomina per un posto di presidente di sezione del Tribunale di Milano (torna all'indice) Nel plenum dell’11 marzo è stata approvata a maggioranza (12 voti: MD, Mov, il Proc.Gen. Delli Priscoli, Ferri e i consiglieri laici Bergamo, Volpi e Tinelli) la nomina ad un posto di presidente di sezione del Tribunale di Milano del dott. Roberto Bichi, che era stato proposto all’incarico in contrapposizione al dott. Lucio Nardi, rimasto soccombente (nei suoi confronti hanno votato Unicost, Patrono, Romano ed i consiglieri laici Saponara e Siniscalchi); si è astenuto il Vicepresidente Mancino. Si è trattato, ancora una volta, di un positivo episodio in cui da minoranza in commissione (la proposta a favore di Bichi aveva ottenuto il voto solo di Maccora e Petralia) si è raggiunta la maggioranza in plenum. Le argomentazioni illustrate nella proposta e negli stessi interventi si sono incentrante su due punti. È stato ribadito il valore del tutto relativo che deve essere attribuito al parametro della anzianità (entrambi i candidati avevano raggiunto il punteggio massimo attribuibile pari a 10 punti) e la conseguente necessità di operare un’effettiva comparazione dei due profili professionali attraverso l’attribuzione di un punteggio diversificato (da 1 a 4) per i parametri di merito ed attitudine. Diversamente operando, con l’ equiparazione dei suddetti punteggi nel massimo (come risultava nella proposta di maggioranza) di fatto si finiva per attribuire valore determinante al solo parametro della anzianità. Si è trattato di valutare due curricula personali positivi, ma tra loro diversi. Proprio attraverso quel doveroso giudizio di comparazione dei profili professionali degli aspiranti, il dott. Bichi è risultato decisamente prevalente sul piano sia del merito che delle attitudini, trattandosi di un aspirante di indiscussa capacità nelle diverse dimensioni della professionalità, qualificabile nei termini di "eccellenza". Egli solo presentava, infatti, plurime esperienze professionali, sia nel settore civile che in quello penale, oltre che lo svolgimento delle funzioni di secondo grado, e nel corso della sua vita professionale aveva dimostrato notevoli capacità di adattamento e riconversione, dote meritevole di particolare apprezzamento in quanto la concreta preposizione alla direzione di un settore civile e/o penale (che avviene in via tabellare) è necessariamente successiva all’assegnazione del posto semidirettivo a cui si partecipa. A ciò deve aggiungersi che anche sotto il profilo attitudinale i dati (contenuti nel fascicolo personale unitamente a quelli emersi nel corso della audizione dell’interessato) evidenziano nel dott. Bichi ampie capacità organizzative, comprovate sia nello svolgimento dei compiti di segretario generale del tribunale di Milano per circa 4 anni, sia nelle attività di impulso e coordinamento poste in essere nel suo attuale ruolo di consigliere della Corte d’Appello. Una nomina importante che dimostra come è possibile dare valore effettivo al riscontro della professionalità, intesa in senso ampio (cioè nella dimensione della professionalità tecnico giuridica e della capacità organizzativa) ... andando decisamente contro o, meglio, oltre il criterio della anzianità.. Dalle Commissioni 1. Proposte di nomine per incarichi direttivi e semidirettivi. (torna all'indice) La Quinta commissione ha proposto all’unanimità di conferire i seguenti incarichi direttivi e semidirettivi:
- Presidente di sezione del Tribunale di Locri al dott. Bruno Muscolo, consigliere della Corte d’Appello di Reggio Calabria;
- Presidente di sezione del Tribunale di Avellino al dott. Giovanni Marena, consigliere della Corte d’Appello di Napoli;
- Procuratore aggiunto della Repubblica di Napoli al dott. Francesco Greco, Procuratore aggiunto della Repubblica di Nola.
Per un posto di Presidente di sezione della Corte di Cassazione sono stati proposti i dott.ri Michele Varrone (Berruti, Maccora e Petralia) e Giorgio Di Iorio (Bergamo, Patrono e Siniscalchi), entrambi consiglieri della stessa Corte. Per il posto di Procuratore della Repubblica di Livorno sono stati proposti il dott. Paolo De Felice (Bergamo, Berruti e Patrono), sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze, ed il dott. Francesco De Leo (Maccora, Petralia e Siniscalchi), sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia. Per un posto di Procuratore aggiunto della Repubblica di Roma sono stati proposti i dott.ri Filippo Laviani (Berruti, Maccora, Petralia e Siniscalchi) e Franco Ionta (Bergamo e Patrono), entrambi sostituti presso la stessa procura.