Editoriale
Il dibattito sulla giustizia si è riacceso in questi mesi sull'onda di aspri scontri ideali (o apparentemente tali) e di fatti drammatici. Ma, nel rincorrersi di analisi, proposte e slogan, ciò che manca, assai spesso, è la razionalità.
C'è, anzitutto, la questione del giusto processo. Essa pare identificarsi ed esaurirsi secondo la posizione prevalente - nella costituzionalizzazione del principio del contraddittorio come regola per la formazione della prova. Ma cosi circoscritto l'intervento riformatore non appaga. L'effettività del contraddittorio - sia detto una volta per tutte, anche per contrastare le sorde e improvvide resistenze di ampi settori della magistratura è esigenza irrinunciabile nel processo: non solo (e già basterebbe) a garanzia dell'imputato, ma altresi per rendere l'accertamento processuale convincente e socialmente accettabile. Costituzionalizzare il principio è, dunque, opportuno ed auspicabile. Ma non basta: il nodo irrisolto del processo sta nella crescente trasformazione del dibattimento (rectius, di alcuni dibattimenti) da luogo della parola e del confronto in celebrazione del silenzio, determinata dalla estensione a dismisura della facoltà di non rispondere di coimputati e imputati di reati connessi. Ciò può (contingentemente, ed a seconda del regime di utilizzabilità degli atti di indagine) giovare all'accusa o alla difesa, ma uccide il processo. Un autentico contraddittorio esige una nuova disciplina del diritto al silenzio, della connessione, dei benefici conseguenti alla collaborazione (e della loro revocabilità). Senza un contestuale intervento in questi settori la modifica costituzionale rischia di essere, anziché una crescita di civiltà, un mediocre compromesso, sullo sfondo del quale si intravede un non commendevole perseguimento di personali convenienze o di interessi di categoria.
Contemporaneamente esplode la questione sicurezza. Ed è subito un rincorrersi di invettive contro il lassismo (legislativo o giudiziario), evidenziato dalla reiterazione di reati da parte di imputati agli arresti domiciliari o di condannati beneficiati dalle leggi Gozzini o Simeone. Alle invettive seguono immancabili proposte risolutive: impiego dell'esercito per il controllo sulle misure alternative, esecutività della sentenza di primo grado, aumento dei poteri della polizia, inasprimento delle pene, introduzione del braccialetto elettronico per il controllo dei condannati (o imputati) sottoposti a misure non detentive In questa singolare moda estiva politici ed opinionisti sono spesso affiancati da magistrati in cerca di notorietà. Eppure razionalità imporrebbe, almeno a chi opera nel settore, il richiamo di due principi: non per negare l'importanza della questione securitaria, ma per affrontarla responsabilmente. Primo. L'intervento giudiziario è uno dei fattori produttivi di sicurezza, non l'unico né il principale: perché l'insicurezza non è il riflesso automatico della criminalità ma una situazione assai più complessa; perché l'andamento e la tipologia dei fenomeni criminali sono strettamente legati al tipo di organizzazione sociale; perché, nella migliore delle ipotesi, il giudiziario intercetta il 10% dei reati; perché, in ogni caso, esso ha tempi incompatibili con le esigenze di rassicurazione della vittima. Circondare la risposta giudiziaria di attese che non possono essere appagate significa alimentare l'insicurezza e distogliere l'attenzione dagli altri interventi necessari (sociali, terapeutici, preventivi, riparatori, ecc.). Secondo. Non per questo la risposta giudiziaria può essere trascurata o sottovalutata. Ma nella sua definizione occorre tenere presenti i limiti insiti nella pena detentiva, evidenziati da una esperienza ormai secolare. Ce lo ricorda un criminologo tra i più impegnati sul versante delle vittime: (La pena) non è mai definitiva; anzi, concernendo perlopiù piccoli illeciti, è generalmente breve e, dunque, sposta solo in avanti di qualche tempo (senza risolverli) i problemi. Solo mettendo mano ai problemi degli uomini che delinquono si può pensare che la "pausa sanzionatoria" abbia ricadute positive sulla questione securitaria. Por mano con serietà al trattamento di chi delinque rende inevitabile il ricorso alle tanto contestate pene alternative al carcere: non per "buonismo" ma perché è ormai ampiamente verificato che spesso la carcerazione vanifica ogni tentativo di recupero ed aggrava i problemi esistenti. Se si cerca una pena utile, la "scommessa sanzionatoria, si sposta dal carcere al territorio e deve inevitabilmente fare i conti con i rischi securitari cui vengono sottoposti i cittadini, pur molto più bassi di quanto l'immaginario collettivo vorrebbe (D. Scatolero, Insicuri da morire, in Narcomafie, settembre 1999).
settembre 1999
(l.p.)