Giudici a Milano
´Ci sono dei giudici a Milano', dei giudici imparziali, terzi e capaci di decisioni giuste. Questo hanno detto, il 28 gennaio scorso all'esito di un percorso lungo e accidentato, le Sezioni unite della Cassazione, respingendo le istanze di trasferimento ad altra sede, ai sensi dell'art. 45 del codice di rito, di uno dei processi milanesi a carico, tra gli altri, del presidente del Consiglio (imputato di corruzione). Il seguito è noto: l'onorevole Berlusconi, con cassetta registrata trasmessa a reti unificate, ha rivendicato per sé un ´giudizio dei pari', evocando contestualmente pericoli di golpe giudiziari e parlando di ´giustizia amministrata in nome e per conto di una parte politica'; più rozzi, due vicepresidenti del Senato non hanno esitato a invocare ´lavori forzati' per i magistrati irrispettosi e ad affermare che ´certi magistrati è difficile distinguerli dai maiali' (con conseguente auspicio del loro invio in Congo ´dove mangiano i pigmei' e, verosimilmente, anche i maiali). L'Associazione nazionale magistrati ha avvertito, con preoccupata fermezza, che ciò apre ´un problema non per i magistrati ma per le istituzioni'. Noi vogliamo essere più espliciti: cosi lo insegna la storia, anche quella più recente nasce un regime.
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Tutto ciò non comincia oggi. Da tempo la maggioranza politica ha individuato i responsabili di tutti i mali della giustizia (e finanche del Paese...) e li addita ossessivamente all'opinione pubblica. Sono - viene ripetuto in modo martellante all'evidente fine di trasformare, sfruttando le leggi della comunicazione, il falso in verità - i magistrati politicizzati. Non, come potrebbero pensare gli ingenui, quelli che affiancano alle funzioni giudiziarie la carica di sindaco o di assessore in giunte di centro-destra (da Vibo Valentia a Reggio Calabria) o i magistrati prestati al Parlamento per scrivere discusse leggi o disegni di leggi ad personam (i cui nomi, da Cirami a Nitto Palma, hanno occupato in questi mesi le pagine dei media). Non loro, ma le ´toghe rosse', cioè i magistrati che non si sottraggono al dibattito culturale sui diritti e sulla giustizia. Di qui, attraverso una sorta di proprietà transitiva, il giudizio (il marchio) si estende a tutti i magistrati, anche i più appartati e silenziosi, che, in settori o in processi delicati, si ostinano a non confondere il dovere di imparzialità con la compiacenza verso la parte forte del rapporto processuale. A questi magistrati è riservato un giudizio tranchat, tale, addirittura, da non richiedere dimostrazione (e, infatti, nessuno si è mai curato di fornirla): quello di perseguire ´fini esterni alla giurisdizione' incompatibili con l'imparzialità e con la stessa lealtà istituzionale.
C'è, di questa impostazione, anche una versione più raffinata (che prepara la strada a quella più hard). La partecipazione del magistrato al dibattito politico-culturale si dice - lo rende sospetto a chi non ne condivide le idee. Affermazione suggestiva ma deformante, ché l'estraneità del magistrato dalla società è, anzitutto, impossibile. Lo abbiamo ormai ripetuto mille volte: ci sono giudici credenti e altri che non lo sono e tale condizione non è occultabile; dovrà, dunque, l'ateo rifiutare il giudizio del credente e quest"ultimo diffidare del giudizio dell'ateo? o non dovranno entrambi verificare l'imparzialità del proprio giudice in base alle sue opzioni interpretative e al rigore delle sue motivazioni? e se ciò accade per le convinzioni più profonde, perché mai lo stesso approccio non dovrebbe valere per le opzioni ideali, culturali, politiche?
Il fatto è che non sono le idee né la loro espressione, ma casomai le ´appartenenze', in particolare se occulte, a ridurre l'imparzialità del magistrato e che sono l'apoliticità e l'indifferenza a offrire copertura a fenomeni di subordinazione o di strumentalizzazione del ruolo. Non è, questa, una acquisizione recente. Scriveva Marco Ramat, in una nota del 1964, ricordando un dibattito nella prima campagna elettorale di Magistratura democratica: ´Ci furono molti interventi appassionati da parte nostra, tutti tesi a sostenere la fondamentale distinzione tra la grande politica della Costituzione, dove la magistratura deve impegnarsi, e la politica di partito, contingente, da cui la magistratura deve estraniarsi. Una distinzione essenziale, permanente, perÚ mai acquisita; anche quando ti sembra che sia stata ormai digerita dai magistrati, rispunta' (La nascita di Md, in Aa. vv., Crisi della giurisdizione e crisi della politica, Angeli, Milano, 1988, p. 318). Ma, nello scontro attuale, non è certo la verità ciò che interessa.
febbraio 2003
(l.p.)