Il terrorismo, la guerra, il diritto
A un mese dall'attacco terroristico alle torri gemelle di New York è
scattata, ancora una volta, la risposta della guerra. Ad essa, di nuovo, cerchiamo
di opporre la forza della ragione.
Non è in discussione non lo è mai stato il punto di
partenza. L'orrore e la barbarie che hanno devastato New York e Washington
non hanno giustificazioni e richiedono una reazione ferma ed efficace. Di più,
essi non hanno colore (politico, religioso o nazionalistico che sia); sono
semplicemente orrore e barbarie. Non c'è dio, non c'è
politica, non c'è progetto di emancipazione senza rispetto e pietà
per l'uomo. Non vale dire che la violenza ha avuto nella storia (ed
ha oggi) un ruolo di primo piano, sia nel mantenimento dello status quo
sia nei progetti di cambiamento. Lo sappiamo bene. Ma il secolo appena concluso
(il ´secolo dell'orrore ', come è stato definito) ha infine,
tra strappi e contraddizioni, convogliato gli sforzi della parte migliore
dell'umanità verso almeno la minimizzazione della
violenza. Ed è, contemporaneamente, cresciuta, anche nei settori politici
più radicali, la consapevolezza indotta dalle dure lezioni della
storia che il domani è scritto nell'oggi e che il futuro sarà
a immagine e somiglianza del metodo e delle pratiche seguite per costruirlo. In
ogni caso, rispetto alla pur diffusa violenza, il terrorismo soprattutto
quando raggiunge le vette di ferocia e di casualità cui abbiamo assistito
rappresenta un che di diverso e incomparabile.
Ma anche (rectius, ancor più) di fronte all'orrore e alla barbarie
occorre ragionare, capire, intervenire con lungimiranza. I terroristi superfluo
dirlo vanno identificati e puniti. Ma non sono indifferenti la natura e
le modalità della risposta al terrore. Se migliaia di uomini (e persino
di bambini) sono pronti a trasformarsi in proiettili (imbottendosi di tritolo
o lanciandosi contro un grattacielo alla guida di un aereo) e se intere comunità
celebrano la strage di New York come una festa, esiste un problema che
nessuna guerra può risolvere o rimuovere (e che, anzi, ogni guerra aggrava).
Occultarlo o ignorarlo promettendo risposte militari risolutive realizza
solo nuove tragedie (ed altre, ancora peggiori, ne prepara). La guerra è
di per sé ingiusta e nessuna moderna favola sulle bombe intelligenti
può nascondere il fatto che la stragrande maggioranza delle vittime, dirette
e indirette, delle guerre moderne è composta da popolazioni civili, da
donne, vecchi, bambini (cui certo non reca sollievo essere effetti indesiderati).
La guerra e, con essa, la distruzione di un paese già colpito a morte da
risalenti conflitti nazionali e internazionali, potrà, forse, portare all'arresto
o alla eliminazione di Bin Laden e dei suoi collaboratori più stretti,
ma non fermerà (ed anzi moltiplicherà) il terrore: le stragi nei
campi di Sabra e Chatyla crocevia del terrorismo contemporaneo sono
li a dimostrarlo. Il terrorismo non è figlio della povertà
e della ingiustizia, ma si alimenta della disperazione da esse prodotta: intervenire
politicamente su tali situazioni dunque, oltre ad essere un gesto di equità,
è il più efficace strumento per vincerlo.
Conosciamo l'obiezione. Che fare, allora? rassegnarsi alla barbarie in attesa
di un mondo migliore incerto e lontano? e, intanto, lasciare che sia impunemente
ucciso un numero crescente di innocenti? Certamente no. Una risposta al terrorismo
è necessaria e urgente anche sul piano repressivo. Ma, come è accaduto
in molte realtà nazionali, essa deve avere in sé i germi della giustizia
e della pacificazione anziché quelli dell'antico occhio per
occhio, dente per dente: per ragioni di civiltà, ma anche per essere
efficace e duratura. In alternativa alla guerra o, forse, per renderla
più accettabile molti hanno parlato, in questi giorni, di operazione
di polizia internazionale. Il termine ha, nel contesto attuale (e
considerato l'uso incongruo che ne è stato fatto nel recente passato),
rilevanti margini di ambiguità ma, nella parte in cui è accettabile,
indica la sola risposta possibile. Un"operazione di polizia, diretta ad accertare
e punire i responsabili di crimini internazionali, non può essere affidata
ad una delle parti (e, a maggior ragione, a chi è vittima del delitto):
essa compete all'Onu, in questa crisi ancora una volta emarginato e indebolito.
Non è un fatto formale ma una questione sostanziale, gravida di conseguenze
anche sui modi dell'operazione, sulle forze in essa coinvolte, sulla
possibilità di ottenere un consenso internazionale reale e non contingente.
PuÚ sembrare utopia, ma è l'unica strada realistica e, a lungo
termine, efficace. Altrimenti, quale che sia l'esito della guerra (pur se
non è questo il punto in dubbio...) si invereranno, ancora una volta, le
dolenti parole di Arthur Rimbaud: ´Questo veleno ci resterà in ogni
vena anche quando, dopo che la fanfara avrà girato, saremo restituiti all'antica
disarmonia'.
8 ottobre 2001
(l.p.)