La libertà delle persone
È ormai diffusa la
consapevolezza che le questioni della libertà delle persone
interpellano oggi in profondità le nostre democrazie: per
molte ragioni, riconducibili ai diversi profili della crisi del
modello di “stato costituzionale” affermatosi nella
seconda metà del ‘900.
Dopo le tragedie delle due
guerre mondiali, il cammino verso un costituzionalismo sovranazionale
fu avviato con l’istituzione delle Nazioni Unite e con la
spinta verso l’effettiva universalizzazione dei diritti
dell’uomo testimoniata dalla Dichiarazione Universale. Ed anche
le costituzioni nazionali nate da quelle tragedie intrapresero lo
stesso percorso: come ricordava Giuseppe Dossetti poco prima della
sua scomparsa, l’ispirazione di fondo del Costituente
repubblicano, non certo incline a “tentazioni banalmente
compromissorie”, era tesa al raggiungimento di un “accordo
di validità universale, oltre il nostro ambito nazionale, e
quindi ancorato a principi generali di umanità e civiltà
più vastamente ammessi, capaci in qualche modo di interpretare
il comune sentire umano dopo la grande catastrofe della guerra”
È da questo “accordo
di validità universale” che nasce lo stato
costituzionale: la legge è ora posta in “rapporto di
conformità e quindi subordinata a uno strato più alto
di diritto, stabilito dalla Costituzione”; ed è la
costituzione rigida a rendere “inviolabili” - anche dal
legislatore - i diritti fondamentali della persona, la cui
sacralità è presidiata da istituzioni di
garanzia, quali la corte costituzionale, la grande invenzione
della riflessione kelseniana, e la magistratura, alla quale è
assegnata una posizione istituzionale nuova, “accanto a
quella del legislatore: se il secondo riempie di contenuti lo “spazio
della legge” disegnato dalla costituzione, la prima rende
concreto lo “spazio dei diritti” che pure paritariamente
ha trovato la propria sede nella costituzione”
La fine dei trent’anni
gloriosi dello stato costituzionale non ha investito, in prima
battuta, “le quattro grandi libertà dei moderni”
di cui parlava Bobbio, ma un altro tassello fondamentale di quel
modello, la concezione della cittadinanza “con qualità”,
ossia riempita di nuovi contenuti, della promessa di inclusione
politica e di emancipazione sociale degli uomini connessa al
riconoscimento e alla tutela dei diritti sociali. L’attacco
allo stato sociale veicolato, nell’ultimo ventennio del secolo
scorso, dal verbo neo-liberista si è saldato con la spinta
verso la personalizzazione della politica, “una scorciatoia di
fronte alla difficoltà di interpretare sul lungo termine le
trasformazioni sociali per inquadrarle in un’ipotesi compiuta”.
Lo smantellamento del Welfare
State, il ridimensionamento – talora, la demolizione - dei
soggetti del pluralismo e lo svilimento del loro ruolo di mediazione
politico-sociale hanno delineato il contesto all’interno del
quale si sono sviluppate le politiche del controllo sociale,
declinando la cd. questione sicurezza in termini univocamente
repressivi: e con il fantasma di “una società della
classificazione e della sorveglianza” che si aggira nelle
democrazie occidentali, la crisi dello stato kelseniano-welfarista
attinge il cuore del suo modello di tutela delle libertà
individuali e, prima di tutto, della libertà personale. Gli
effetti sono ormai sotto gli occhi di tutti, ben rappresentati dagli
imponenti processi di ricarcerizzazione che hanno riguardato –
con tassi diversi (elevatissimi, ad esempio, per gli Stati Uniti), ma
sulla base di una tendenza comune – gli ordinamenti di tutti i
paesi occidentali. Segnalano, questi processi, le lacerazioni che
attraversano il “nesso interno tra sovranità popolare e
diritti fondamentali” e, dunque, il nucleo essenziale del
costituzionalismo contemporaneo.
Un modello che anche nella sua
dimensione sovranazionale conosce una crisi profonda: dalla prima
guerra del Golfo, fino alla guerra preventiva e passando per
gli interventi umanitari, la fine del secolo breve ha
segnato il ritorno alla normalità della guerra, non più
flagello dell’umanità, non più ripudiata
“come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali”. La logica della guerra infinita e
preventiva penetra nelle nostre società democratiche e,
con gli orrori dello stragismo terroristico, attribuisce alla
prospettiva dello “scontro delle civiltà” la forza
della profezia che si auto-avvera: “all’ideologia del
mercato sregolato e selvaggio si è affiancata, nel minacciare
dall’interno dell’Occidente la civilità dei
diritti, l’ideologia della sicurezza, concepita come
primum bonum da salvaguardare in uno stato d’emergenza
planetario e permanente, e perciò invocata come criterio per
giustificare ogni genere di limitazioni delle libertà
fondamentali”.
Nel nostro paese, le tendenze
globali delle politiche del controllo e, in particolare, delle
politiche criminali si sono sviluppate in un contesto caratterizzato
dalla “ipertrofia del penale, con il suo corteo di
penalizzazione selvaggia, di cadute di razionalità, di
svalutazione della penalità e di sfiancamento dei principi
generali e del loro ruolo di garanzia”. Rispetto a tale
contesto, gli indirizzi di politica del diritto dominanti appaiono
fortemente permeati da un mix di populismo e ideologia
neo-liberista, intesa come “assenza di regole e controlli, di
limiti e vincoli, da un lato all’autonomia privata, e quindi ai
poteri economici del mercato, dall’altro alle decisioni della
maggioranza e quindi ai poteri politici”: diviene così
programmatica la spinta – in qualche modo naturale
nei sistemi penali – all’accentuazione della
divaricazione tra i delitti dei potenti e quelli dei
deboli. Immigrazione, tossicodipendenze, devianza minorile,
criminalità di strada disegnano il volto della
coercizione personale – penalistica e non solo penalistica –
in concreto agita e ne segnano la distanza dal modello
dell’extrema ratio, espressione del principio
personalistico accolto dalla Costituzione.
I saggi pubblicati in questo
fascicolo analizzano – dal punto di vista dei giuristi, ma
anche attraverso le letture offerte dagli studi sociologici e
criminologici – la normativa introdotta negli Stati Uniti
all’indomani dell’11 settembre e l’impatto,
sul nostro ordinamento, del sicuritarismo; cercano di
delineare i profili di una riforma possibile del diritto
penale, esplorando gli spazi che tale riforma può guadagnarsi
nelle democrazie contemporanee e mettendo a fuoco il ruolo del
carcere e le funzioni della pena come sono e come
potrebbero essere; proiettano l’analisi della situazione e
della normativa italiana nella dimensione europea, tenendo fermo,
naturalmente, il riferimento alla Costituzione e al suo modello di
protezione delle libertà fondamentali delle persone. Un
modello al quale non smettono di guardare coloro che continuano a
credere nelle ragioni del diritto, dei diritti e della democrazia.
(Angelo Caputo)