L'autunno della giustizia
L'autunno della giustizia
Secondo il presidente del Consiglio proseguire un dibattimento a suo carico integra un "uso strumentale dell'azione penale"; ma stralciarne la posizione è un "atto di ostilità politica". Entrambe le soluzioni, poi, vengono garrulamente stigmatizzate come atti di "criminalità giudiziaria", "pratiche golpiste" poste in essere da "magistrati politicizzati" e via seguitando. Si tratta, a ben vedere, di paradossi solo apparenti. Non sono le sentenze e i provvedimenti giudiziari ad essere già scritti (come tuona la propaganda della maggioranza politica), bensi le affermazioni (e gli insulti) che li accompagnano. Queste affermazioni (e questi insulti) non sono commenti, ma tasselli di una strategia di delegittimazione della giurisdizione e della magistratura, studiata a tavolino e praticata con metodo e lucidità. L'obiettivo è evidente e nient"affatto nuovo: trasformare, con l'ossessiva ripetizione, il falso in verità e innescare, di qui, nuove "cacce alle streghe". Il seguito è anch"esso - già scritto e, parzialmente, in itinere, grazie alle solerti iniziative di autorevoli (e meno autorevoli) rappresentanti del Governo e della sua maggioranza: minacce ai giudici sgraditi (definiti "cancro da estirpare"), interferenze pesanti e ripetute [basti pensare alle ispezioni negli uffici giudiziari milanesi, casualmente (sic!) disposte a margine delle battute conclusive del dibattimento e mirate, tra l'altro, alla acquisizione di documenti negati dall'autorità giudiziaria competente], proposte di modifica ed estensione del sistema della immunità parlamentare non solo con provvedimenti ad personam ma finanche con legge ordinaria (e addirittura con decreto legge). Né potrebbe essere altrimenti ché le dichiarazioni del predente del Consiglio non sono non possono essere - semplici manifestazioni di libertà di pensiero, ma atti di indirizzo politico.
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Tra i punti centrali dell'offensiva riformista avviata, in materia di giustizia, dal presidente del Consiglio e dalla sua maggioranza v'è la questione dell'assetto del pubblico ministero, della sua organizzazione e della sua autonomia. Al risalente disegno di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri si è, da ultimo, affiancato quello di irrigidire l'assetto gerarchico delle Procure e di ridefinire i poteri di indagine (spostandoli in maniera massiccia sul versante della polizia giudiziaria). Il progetto non potrebbe essere più chiaro. E merita, da parte di tutti i giuristi, un aggiornamento di riflessione. Anche da parte della avvocatura associata nell'Unione delle Camere penali che ha fatto, da qualche tempo, della separazione delle carriere un dogma. Questa rivista preferisce da sempre, ai dogmi, l'analisi dei fatti (che prosegue, in questo fascicolo, con un articolo di Antonio Cluny sulle vicende della separazione delle carriere nella esperienza portoghese). Di qui la proposta di una ripresa di confronto non rituale, magari a partire dalle posizioni originarie dell'Unione, espresse al congresso di Abano del 22-25 settembre 1994 dall'(allora) neopresidente Gaetano Pecorella nella relazione "Crisi del processo penale e separazione delle funzioni", in cui si legge, tra l'altro, quanto segue: "Il titolo vuole chiarire qual'è il nostro convincimento: non di separazione delle carriere deve parlarsi, bensi, più correttamente di separazione delle funzioni (...). Un tale concetto è assai più articolato di quello tradizionale secondo cui dovrebbe parlarsi di separazione di carriere. Poco interessa che vi siano distinzioni burocratiche, quasi che si volesse differenziare tra impiegati dello Stato che appartengono a ruoli diversi. Con la separazione delle funzioni si vuole rimarcare che giudici e pubblici ministeri conservano eguale dignità ed appartengono ad eguale titolo all'ordine giudiziario: sennonché, a chi eserciti le funzioni dell'accusa a cui sono connesse quelle dell'indagine non deve essere attribuita alcuna funzione propria di chi deve giudicare, e viceversa. (...) Resta perÚ l'esigenza che giudice e pubblico ministero abbiano una cultura comune, appartenendo tutti allo stesso ordine giudiziario . Unitario sarà il concorso di ammissione e unitario sarà il tirocinio: esaurito questo si avrà la scelta di una carriera piuttosto che di un'altra, senza che, successivamente, sia consentito de plano il passaggio dall'una all'altra. Si è detto de plano, perché uno sbarramento assoluto si porrebbe in contrasto tanto con le legittime aspirazioni di chi intenda mutare il proprio ruolo, che con la più razionale utilizzazione delle risorse umane".
3 giugno 2003 (l.p.)