Le riforme che vogliamo
Dopo otto mesi di governo di centro-sinistra, archiviata la finanziaria, inizier? ? si dice ? la stagione delle riforme. Per chi, come noi, lo chiede dall'inizio della legislatura ? una buona notizia, ma ?dal dire al fare? la strada ? ancora lunga, anche perch? sul contenuto e il segno delle riforme l'incertezza sembra regnare sovrana e le anticipazioni che si intravedono non autorizzano facili ottimismi. Ci riferiamo ai settori che più direttamente toccano l'?oggetto sociale? di questa Rivista: la questione istituzionale e la giustizia.
La questione istituzionale, dopo qualche mese di apparente accantonamento, viene nuovamente evocata con insistenza. Due i passaggi che sembrano all'ordine del giorno: una nuova legge elettorale e l'immancabile ?riforma della Costituzione?. Una nuova legge elettorale ? certamente necessaria, ma il suo scopo deve essere quello di argi-nare la deriva personalista della rappresentanza e di restituire effettivit? alla partecipazione dei cittadini: insomma, una legge elettorale per contrastare la (resistibile) ascesa della democrazia del tinello. Proprio quest'ultima sembra, invece, la prospettiva vincente all'insegna dell'obiettivo di garantire la governabilit?. Eppure un dato emerge in modo evidente dalla vicenda istituzionale degli ultimi anni: la riduzione della rappresentanza aumenta il conflitto e rende più difficile non solo una governabilit? giusta ma anche la governabilit? tout court. Altrettanto chiara la questione della riforma costituzionale. La delegittimazione della Costituzione del '48, incessantemente perseguita a partire dai primi anni '90, ha avuto come sbocco, nella scorsa legislatura, la "riforma" approvata dal Senato il 16 novembre 2005. Su di essa i cittadini si sono pronunciati con il referendum del 25-26 giugno 2006, il cui esito non lascia dubbi: ha partecipato al voto il 53,7% degli elettori (una percentuale maggiore non solo di quella verificatasi nei referendum degli ultimi dieci anni ma anche ? per intenderci ? di quella che vota per il presidente degli Stati Uniti d'America...) e il 61,3% dei votanti si ? espresso per il no, bocciando cos?, in modo definitivo e irreversibile, il nuovo testo. L'entit? della partecipazione e del rifiuto della Costituzione voluta dalla destra (contro la tradizione e le forze antifa-sciste che scrissero la Carta del '48) ha una importanza che va ben al di l? della specifica riforma e colloca l'esito referendario in diretta continuit?, per senso e per importanza, con quello della consultazione del 2 giugno 1946, allorch? il 54,26% degli elettori scelsero, per il nostro Paese, la forma repubblicana. Ha vinto la Costituzione del '48. Sbaglia chi ritiene che sia stata battuta solo una specifica proposta di cambiamento. L'Italia ha di nuovo una Costituzione, integra e legittimata dal consenso popolare. Ogni ipotesi di modifica sostanziale (forse realistica in caso di scarsa affluenza alle urne, o di vittoria di misura del no), sarebbe una prevaricazione inaccettabile.
E veniamo alla questione della giustizia. Opportunamente comin-cia a emergere nel dibattito politico la percezione che, a differenza di quanto incessantemente strillato nella scorsa legislatura, la realizzazione di un "servizio giustizia" degno di questo nome si gioca non sulla modifica dello status dei giudici (pur in taluni punti necessaria, an-che per rimediare ai guasti della "riforma" targata Castelli) ma sui temi delle riforme strutturali, delle risorse, dell'organizzazione, di una nuova definizione delle "tavole dei valori" tutelati, della revisione rigorosa delle procedure (che superi l'impropria quanto frequente identi-ficazione tra garanzie e formalismo astratto). Alla percezione ? necessario che seguano fatti, progetti coerenti, iniziative capaci di mobilitare le migliori risorse disponibili (anche attraverso intelligenti e impegnative sperimentazioni in aree limitate con termini prefissati e rigorosi per le relative valutazioni). Il ministro guardasigilli si ? impegnato, mentre scriviamo, in una scommessa impegnativa e affascinante: portare la durata massima dei processi civili e penali a cinque anni. La cosa ? stata oggetto, prevalentemente, di commenti ironici: non immotivati in base all'esperienza, posto che, nella scorsa legislatura, il suo predecessore aveva solennemente assicurato alle Camere la presentazione dei progetti di riforma dei quattro codici entro il 2001 e l'approvazione di quello penale entro il 2003 (sic!) e, nella campagna elettorale che l'aveva preceduta, l'Ulivo aveva promesso di dimezzare, nell'arco di una sola legislatura, la durata media dei processi (senza, pe-raltro, dire come)... Pur condividendo la cautela, noi vogliamo prendere la scommessa sul serio. Aspettiamo, dunque, le proposte che saranno sottoposte al Parlamento e gli interventi organizzativi che saranno approntati: con essi ci confronteremo da subito con franchezza, non senza ricordare al ministro che otto mesi sono gi? inutilmente trascorsi e che gli interventi sbagliati e le promesse non mantenute alimentano solo la sfiducia.