L'utile, il giusto e la giurisdizione
Non è - come vorrebbe una vulgata diffusa nella politica, sulla stampa e persino tra i magistrati - un copione già visto. Le misure cautelari che, il 16 gennaio, hanno colpito sodali e congiunti del guar-dasigilli Mastella anticipandone le dimissioni annunciate e spianando la strada alla caduta del Governo Prodi hanno poco a che vedere con l'arresto per corruzione, avvenuto a Milano il 17 febbraio 1992, del socialista emergente Mario Chiesa, a cui seguirono, come una valan-ga, il ciclone di Tangentopoli e la fine della prima repubblica. Ed e-gualmente distanti esse appaiono dall'avviso di garanzia (anch'esso per corruzione) emesso dalla Procura milanese nei confronti del presiden-te del Consiglio Berlusconi, che, notificato a Napoli il 22 novembre 1994, contribuì a determinare la fine anticipata del primo Governo della Repubblica sostenuto da un partito azienda e dagli eredi del fa-scismo (con il supporto di alcuni remissivi comprimari). Ci sono, cer-to, delle analogie: in particolare, le incursioni del giudiziario nel si-stema politico e l'acuirsi della crisi di quest'ultimo, foriera di competi-zioni elettorali ravvicinate e laceranti (peraltro determinate - crisi ed elezioni - da ragioni profonde, a fronte delle quali l'intervento giudi-ziario appare, ora come allora, una concausa secondaria se non addi-rittura un comodo alibi). Ma le analogie si fermano qui ché ben diver-sa è la situazione nella politica, nella società, nella giurisdizione. Se ne parlerà a lungo, anche perché la giustizia si preannuncia come tema centrale della prossima campagna elettorale e della legislatura che ver-rà... È bene, dunque, cominciare da subito, seppur con pochi flash a caldo.
La politica, travolta dalla "questione morale" e incapace di rin-novamento, è oggi più debole e delegittimata di quanto non fosse nei primi anni Novanta, quando esisteva, almeno, la speranza di una im-minente primavera, propiziata dal risveglio della società civile, da un diffuso impegno delle istituzioni (in primis quelle giudiziarie) contro mafie e corruzione, da una voglia di politica fondata sul bisogno di cambiamento anziché sulle alchimie di palazzo. Quella stagione è oggi sideralmente lontana e sulle ceneri di una primavera mai sbocciata (per incapacità e miopia di chi avrebbe potuto e dovuto promuoverla) fioriscono, da un lato, delusione e antipolitica e, dall'altro, un crescen-te populismo, accompagnato da diffusi fenomeni di corruzione e mal-costume e spesso venato di intolleranza e razzismo. Stanno qui - e non in presunte spallate inferte da incursioni giudiziarie - le ragioni vere della implosione del sistema.
Ma la crisi non risparmia la giurisdizione, pur uscita sostanzial-mente indenne, in termini ordinamentali, da tentativi di ridimensiona-mento senza precedenti e tuttora capace di iniziative indipendenti e rigorose. Un decennio di delegittimazione ha lasciato - non poteva non lasciare - il segno nella cultura e nelle prassi di pubblici ministeri e giudici, talora modificandone l'approccio al processo e producendo fenomeni, tra loro speculari, di autonormalizzazione preventiva o di contrapposizione esibita come cifra della propria indipendenza. Il sus-seguirsi di leggi ad personam ha degradato la norma a comando poli-tico diretto, innescando, anche nella giurisdizione, la tentazione di so-stituire il primato del giusto (che ne è l'irrinunciabile proprium) con quello dell'utile e incidendo così in profondità sulle stesse categorie della interpretazione. L'interessata presentazione del processo come luogo dove si conduce una battaglia senza esclusione di colpi ha, qua e là,, determinato l'emergere di spinte tese a far prevalere la cultura del risultato su quella delle regole. E c'è, anche tra i magistrati, chi ha dedicato maggior cura alla tutela della propria immagine (magari di eroe solitario) che al rigore della motivazione. Non è, questa, una si-tuazione generalizzata; ma ciò accaduto e accade. Occorrono, dunque, analisi rigorose e interventi conseguenti, la cui sede naturale sta nel confronto e, se del caso, nello scontro culturale (non surrogabili con scorciatoie disciplinari o burocratiche pur - nei casi estremi - necessa-rie). Si impone qui un non rinviabile protagonismo della comunità dei giuristi, a cui intendiamo concorrere aprendo le pagine della Rivista a un dibattito franco e senza reticenze. Cominciamo con uno scritto di Giuseppe Santalucia dedicato a tendenze e problemi della giustizia penale in alcune aree del Sud, a cui farà seguito, nel prossimo fascico-lo, un forum con la partecipazione di Paolo Flores d'Arcais, Antonio Ingroia, Nello Rossi. Donatella Stasio e Luciano Violante. Vogliamo che questo sia solo l'inizio.
gennaio 2008