Dopo il 13 aprile
La Costituzione, frutto dell'antifascismo e della Resistenza, ha sessant'anni. Dedicheremo a questa ricorrenza e al suo significato attenzione e approfondimenti ma, oggi, non è tempo di celebrazioni. Le elezioni politiche del 13 e 14 aprile, infatti, non hanno determinato solo una fisiologica (e salutare) alternanza di governo. Esse hanno sancito l'egemonia - non è dato sapere se nel breve o nel lungo periodo - di forze politiche e culturali che la Costituzione hanno sin ab initio avversato o che sono state estranee al processo costituente. Di ciò occorre essere consapevoli se davvero si vuole arrestare la deriva in atto.
Certo, resta la Carta. E noi giuristi ne conosciamo il significato profondo e abbiamo il dovere di richiamarne, ogni giorno, la centralità. Ma di essa - della Costituzione repubblicana - si sono affievolite le basi materiali; in ogni caso sono venuti meno i soggetti organizzati che nei decenni scorsi l'hanno interpretata e (parzialmente) realizzata. Questo capovolgimento di orizzonte è proclamato in modo esplicito da chi ha vinto (e già proclama la necessità di riscrivere la storia e di ridefinire le basi teoriche della convivenza sociale) ma è condiviso anche da settori significativi dello schieramento progressista, erede talora smemorato talaltra ottuso dei padri costituenti (che, accodandosi al pensiero unico dominante, non fanno mistero di condividere il progetto di superamento della Carta). La crisi - a ben guardare - investe non solo la Costituzione del '48 ma il costituzionalismo in quanto tale, cioè quella concezione della società e della convivenza che vuole le regole e i princìpi fondamentali sottratti alla decisione (o al capriccio) delle maggioranze contingenti.
Le ricadute di questo nuovo quadro sul sistema dei diritti sono univoche e si toccano con mano nei progetti di governo della destra: dal settore del lavoro a quello del welfare, dalla sfera della autode-terminazione delle persone alla laicità dello Stato, dalla disciplina della immigrazione alle politiche sicuritarie. In questo contesto sono univoche anche le ricadute sulla giurisdizione e sui soggetti istituzionali chiamati ad assicurarne l'esercizio indipendente e imparziale. Non a caso già si parla, prima ancora della formazione del nuovo Governo, di ulteriori strette dell'ordinamento giudiziario (accompagnate da modifiche costituzionali, auspicabilmente bipartisan) e finanche di importazione di istituti d'oltre oceano - come la giuria - per limitare i poteri della magistratura («come se si trattasse di im-portazione di grano alla rinfusa o di pelli secche», per usare una feli-ce espressione coniata nel 1996 da Giuseppe Borrè).
Non è questa la sede per dire come e perché tutto questo è accaduto. Ma è accaduto. Da qui, da questo macigno, occorre ri-partire. Senza analisi riduttive e consolatorie ma anche senza coltivare rim-pianti per un'epoca che - semplicemente - non c'è più. Con intelligenza, passione e fantasia. Con fedeltà rigorosa alle radici e, insieme, con capacità di inventare nuove forme e nuovi soggetti dell'agire culturale e politico. Consapevoli, in ogni caso, che sui princìpi e sui va-lori non ci sono compromessi possibili.
Ciò riguarda anche la giustizia, dove pure c'è chi già ha iniziato a posizionarsi in modo conforme ai desiderata del nuovo potere (secondo una prassi antica, ben descritta - in questo fascicolo - nell'obiettivo di Giancarlo Scarpari dedicato a «I magistrati, il fascismo, la guerra»). Occorreranno analisi attente e puntuali sulla politica del diritto, sulla interpretazione della legge, sugli orientamenti della giuri-sprudenza. Occorreranno proposte razionali, capaci di aggregare consenso, e critiche puntuali. E, ancora, occorrerà saper selezionare gli obiettivi e le priorità, per il breve e per il medio periodo. Sarà un percorso difficile e accidentato. Gran parte delle proposte possibili per arginare la deriva in atto e riprendere un percorso interrotto - come ha scritto qualche anno fa, su questa Rivista, Pier Luigi Zanchetta - sembrano oggi avere il sapore dell'utopia, ma la storia è per-corsa da eventi fino a pochi anni prima inimmaginabili. Non sarà impossibile invertire la tendenza. Purché si sappiano coniugare radicalità e collegamento con la società, senza elitarismi e senza fughe in avanti (inutili e aristocratiche, quando non pericolose). Ovviamente non conosciamo i tempi della inversione di tendenza, ma l'impegno culturale per realizzarla sarà comunque un investimento prezioso.
Questo impegno, da trasformare in progetto, attende la Rivista. Vi porremo mano anche aprendo la nostra impresa ad altri (altri giu-risti, altri magistrati, altri operatori del diritto).
aprile 2008