1.La Difesa della Costituzione e le garanzie della legalità democratica
Il 25/26 giugno si è verificato un evento politico di enorme rilievo storico.
Il popolo italiano, chiamato alla urne per un referendum in cui doveva scegliere per la seconda volta, dopo il 2 giugno del 1946, il destino della democrazia nel nostro paese, si è espresso in modo nettissimo, confermando, a larga maggioranza la Costituzione vigente, a 59 anni dalla sua approvazione, ed affossando la riforma costituzionale della destra, approvata dal Parlamento nella passata legislatura, che avrebbe sostituito l’ordinamento democratico, con un regime fondato sul potere di un solo uomo.
In questo modo è tramontata, noi speriamo per sempre (ma i rischi sono sempre incombenti), la parte più insidiosa del progetto politico di questa anomala destra italiana che, durante tutta la legislatura appena trascorsa ha cercato in ogni modo di sbarazzarsi dei lacci e laccioli che ogni ordinamento democratico pone all’esercizio dei poteri politici, perseguendo pervicacemente una concezione monista del potere, confacente ad una politica populistica ed autocratica.
Il risultato del referendum conferma che il popolo italiano si riconosce nei valori dell’ordinamento democratico, generato dalla lotta di Liberazione, si riconosce in questa Costituzione e nelle sue promesse - ancora da attuare - e nel percorso di emancipazione sociale, di eguaglianza e di libertà, di cui i Costituenti hanno tracciato le linee guida, lasciando al mestiere della politica il compito di attuarle, ed ai giudici il compito di darvi tutela legale.
A questo risultato storico hanno dato un forte contributo le lotte dei magistrati, l’impegno dell’Associazionismo, ed in particolare di Magistratura Democratica
Non mi riferisco soltanto alla mobilitazione per il No, partita con grande difficoltà a dicembre del 2005 con la raccolta delle firme, promossa da partiti, movimenti ed associazioni, fra le quali Magistratura Democratica, e proseguita, attraverso mille rivoli, durante la campagna elettorale. Una campagna che il Comitato per il No, presieduto dal Presidente Oscar Luigi Scalfaro, ha condotto con grande impegno, trovando, spesso, al suo fianco, nella manifestazione e nei dibattiti, magistrati di Magistratura democratica e del Movimento per la Giustizia.
Al di là dell’impegno dei singoli nella campagna elettorale sul referendum, la Magistratura italiana ha contribuito a difendere gli assetti costituzionali, attraverso l’esercizio del proprio ruolo istituzionale e l’impegno dei tanti magistrati che hanno continuato a fare il loro dovere ed a portare avanti il controllo di legalità, anche nei confronti dei poteri economici e politici senza farsi intimidire dalle violentissime campagne di delegittimazione, dalle aggressioni inaudite e dai fuochi pirotecnici che una fazione politica proterva ha scagliato contro di loro, tentando di manipolare e bloccare la macchina della giustizia, anche con leggi ad personam e provvedimenti inauditi nella nostra storia istituzionale.
Si è molto discusso nella passata legislatura se fosse applicabile al sistema di governo Berlusconi la definizione di “regime”. Molti, anche a sinistra, stoltamente si sono ribellati al ricorso a questa metafora, respingendola come ingiustificata, se non provocatoria.
In realtà nella passata legislatura si sono messi molti tasselli per costruire un regime, ma l’opera non si è compiuta e non si poteva compiere, vigendo la Costituzione del 48. Sono state costruite tante pentole ma non si riuscivano mai a fare i coperchi perché, all’esito di questi percorsi tortuosi, interveniva la Corte Costituzionale o la magistratura ordinaria e scompigliavano i giochi, restaurando – per quanto possibile – la legalità.
Nella passata legislatura abbiamo vissuto una crisi politica, istituzionale e costituzionale senza precedenti, ma abbiamo anche sperimentato la capacità di resistenza dell’ordinamento democratico, dovuta alla solidità dell’architettura costituzionale che sorregge il pluralismo nel nostro paese.
Se non si è instaurato un regime, è perché la Costituzione del 48 rende impossibile ogni forma di “dittatura della maggioranza”, sebbene – nella sostanza – sia stato proprio questo il progetto politico perseguito da una fazione che si è data anima e corpo per restaurare l’onnipotenza del decisore politico.
2. L’indipendenza della magistratura, snodo fondamentale del pluralismo istituzionale
Per perseguire questo progetto politico, il primo e più grosso scoglio da superare era rappresentato da quella articolazione insopprimibile del pluralismo istituzionale, rappresentata dal sistema dell’indipendenza della magistratura, che i Costituenti, nella loro saggezza, hanno concepito come effettiva ed insuperabile, prefigurando un sistema di controllo di legalità, diffuso sul territorio, impermeabile ai condizionamenti burocratici, non manipolabile dai vertici politici e non assoggettabile all’indirizzo politico di governo.
A fondamento delle campagne di intimidazione che il precedente Presidente del Consiglio ha acceso ripetutamente con le sue inusitate aggressioni alla magistratura, nel suo complesso, ed ai singoli giudici, non vi erano soltanto i rancori personali di un uomo politico “perseguitato” dall’Autorità giudiziaria, a cagione dei fatti criminosi ascritti a lui stesso ed ai suoi principali collaboratori. Dietro lo scontro fra Berlusconi e la Giustizia non si nascondono solo questioni (ed interessi) personali, vi era un disegno “riformatore” di vasto respiro. Non solo leggi “ad personam”, come la legge sulle rogatorie (la legge Cirami), la legge sul falso in bilancio, la legge sulla immunità giurisdizionale del Presidente del Consiglio (il lodo Schifani che giustamente la Corte Costituzionale ha cancellato). Quella maggioranza attraverso la legge di riforma dell’Ordinamento giudiziario, perseguiva un disegno riformatore che incideva in profondità, non tanto sulla giustizia, quanto sulla democrazia, sfigurando profondamente il modello di democrazia concepito dai costituenti.
I Costituenti previdero, con la VII disposizione transitoria e finale, che, per darsi attuazione ai principi costituzionali in tema di giustizia occorreva una “nuova legge sull’ordinamento giudiziario”, che sostituisse l’ordinamento vigente, emanato dal fascismo nel 1941, perché si resero conto che i principi articolati dalla Costituzione a garanzia del corretto ed indipendente esercizio del potere giudiziario per diventare effettivi avevano bisogno di un ordinamento giudiziario coerente.
La legge sull’ordinamento giudiziario, quindi, è lo strumento tecnico attraverso il quale si fanno scendere in terra i principi costituzionali e li si innestano nell’ordinamento. Se si vuole rimandare quei principi in cielo e renderli inoffensivi, è sull’ordinamento giudiziario che bisogna operare.
Qui c’è la genesi, l’ispirazione profonda della riforma confezionata dalla Casa della Libertà. E’ una riforma complessiva, vasta, profonda, che rivolta completamente l’ordinamento giudiziario vigente, allo scopo di cancellare o rendere al massimo inoperanti tutti (proprio tutti!) i principi costituzionali. Dal principio che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, a quello che i magistrati si distinguono fra di loro solo per la diversità di funzioni, al principio del potere (giudiziario) diffuso, al principio della obbligatorietà dell’azione penale. Il risultato è quello di ottenere dei magistrati deboli, isolati ed intimiditi, la cui libertà di coscienza è compressa al massimo da condizionamenti di ogni tipo mentre la funzione giudiziaria è intaccata nella sua stessa essenza: quella dell’interpretazione della legge.
Attraverso questa riforma si profilava un nuovo ordinamento dello Stato, incentrato sull’esigenza di rimuovere lo “scandalo” del potere diviso. Essa, infatti, introduceva un ordinamento giudiziario, radicalmente disomogeneo rispetto alla Costituzione del 48, ma, tuttavia, coerente con l’ordinamento dello Stato designato dalla nuova costituzione scritta dai quattro cosiddetti “saggi di Lorenzago”.
Per questo la riforma dell’ordinamento giudiziario, accompagnata da tutte le altre leggi della vergogna, costituiva il capitolo occulto dell’ambizioso disegno di controriforma della Costituzione, naufragato con il referendum.
3. Assetto del giudiziario e diritti dei cittadini:
una faticosa evoluzione storica.
Quando si parla di riforma dell’ordinamento giudiziario o di riforme della giustizia in genere, il difetto principale del linguaggio politico è la sua astrattezza dalla dimensione concreta dei bisogni e dei diritti delle persone.
Noi che veniamo da una lunga tradizione, sappiamo quante difficoltà abbiamo dovuto attraversare, quanta fatica, quante lotte, quanto impegno è stato necessario per far “camminare” i diritti, per ottenere l’insediamento, almeno in parte, delle libertà e dei diritti promessi dalla Carta Costituzionale.
Il periodo fino al 1960 così è stato descritto da uno testimoni del tempo, Vittorio Foa:
“ Fu un periodo molto duro per i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali e politiche. Il diritto umano e politico di libertà di opinione fu sistematicamente violato, il licenziamento per rappresaglia era una pratica diffusa contro chiunque mostrasse propositi politici o anche solo simpatie per i partiti di sinistra. [...]Tutta l’organizzazione dello Stato sembrava ignorare che era stata approvata una costituzione che riconosceva dei diritti civili e politici; la magistratura e l’amministrazione - e in particolare la polizia - applicavano la legge nel modo più ristretto e sempre a senso unico. Alle proteste della cultura di provenienza antifascista il ministro degli Interni rispondeva con una sola sprezzante definizione "culturame". Ho un ricordo netto e profondo dei lavoratori di quegli anni: essi pagavano con la povertà è una continua insicurezza la fede comunista e socialista che, in quella fase, era propriamente una fede democratica.” (V. Foa, Questo novecento, Einaudi, Torino, 1996, pag. 240/241)
Se per ottenere la Costituzione italiana è stato necessario il sacrificio della resistenza, per ottenere che la Costituzione venisse applicata sono stati necessari anni di lotte, di sacrifici e di dure sofferenze. Così nel corso degli anni 60 e 70 del secolo scorso sull’onda di movimenti politici e sociali, che hanno investito profondamente la società italiana si è vissuta un’epoca di espansione dei diritti, di rafforzamento ed espansione della democrazia, che da molti anni la politica della destra – ma non solo della destra – sta cercando di rovesciare.
In questo contesto storico e politico, un grande ruolo ha giocato l’associazionismo dei Magistrati, il rinnovato ruolo dell’ANM, trainato da una corrente dinamica come Magistratura Democratica.
Alla metà degli anni 50 un giudice scrittore Dante Troisi, scrisse un bellissimo romanzo, Diario di un giudice, in cui rappresentava lo stato della magistratura del tempo. Per aver scritto questo romanzo subì un processo ed una condanna dal giudice disciplinare dell’epoca, la Corte d’Appello di Roma, la quale osservò, nella sua sentenza che: “il giudice è rappresentato come privo di ogni idealità, dedito a condannare e giudicare per abitudine, distratto o preoccupato dalla carriera, infastidito di dover giudicare per uno stipendio non soddisfacente. In altri termini la funzione del giudice è rappresentata come un mestiere, esercitato senza nessun senso di responsabilità.”
Troisi descriveva un modello di giudice, debole, isolato, impermeabile ai valori costituzionali, pavido nei confronti della gerarchia ed interessato soltanto alla propria carriera.
Non c’è da meravigliarsi se in quel periodo la magistratura applicava le leggi derivanti dall’ordinamento fascista senza incertezze e dava una lettura restrittiva dei diritti di libertà dei cittadini, che riconosceva soltanto nei limiti in cui erano compatibili con le leggi di polizia, accettando con il massimo conformismo gli orientamenti della Cassazione, che fungeva da “vertice” della Magistratura, e che aveva “sterilizzato” la Costituzione, dichiarando “programmatiche”, cioè non giuridicamente vincolanti le sue norme supreme.
In questo periodo fioriscono dei veri e propri orrori giurisprudenziali, come la famosa sentenza che escludeva lo stupro, invocando la “vis grata puellis”, o quella che assolveva il Vescovo di Prato, che ingiuriava dal pulpito, qualificandoli “concubini”, due cittadini che avevano contratto matrimonio civile secondo le leggi dello Stato.
Questo modello di giudice è profondamente cambiato nel corso degli anni, ed è cambiata la qualità della giustizia resa ai cittadini, attraverso un lungo processo che ha portato al sostanziale smantellamento dell’ordinamento giudiziario del 41, al superamento del conformismo burocratico, ad un profondo rinnovamento culturale del corpo dei magistrati, trainato dalla crescita della coscienza e della pratica dell’indipendenza, frutto anche del maggior pluralismo e dell’introduzione della differenza di genere.
4. Il ruolo dell’Associazionismo e le lotte dei magistrati
Non si è trattato di un processo facile, né scontato.
L’associazionismo dei magistrati ha giocato un ruolo determinante. Sono stati necessari coraggiosi atti di rottura del conformismo dominante, è stata necessaria un’azione costante e prolungata per far filtrare nella giurisprudenza i principi costituzionali e per ottenere una crescita dell’indipendenza reale e della capacità del giudice di penetrare nei santuari del potere a portarvi il controllo di legalità. Non a caso è stato necessario l’impegno dell’associazionismo perché i giudici acquistassero la consapevolezza che le norme della Costituzione si devono applicare direttamente, come statuiva la mozione finale del XII Congresso dell’ANM tenutosi a Gardone dal 25 al 28 settembre 1965.
I magistrati, come altre categorie di cittadini, hanno “faticato” per conquistarsi il diritto alla parola, la possibilità di partecipare a manifestazioni ed intervenire a pubblici dibattiti su temi di interesse pubblico. C’è una trama di incolpazioni disciplinari che hanno colpito negli anni 60/70 i magistrati più impegnati nell’associazionismo e nel dibattito pubblico sui valori della giurisdizione.
Fra i tanti esempi, si potrebbe citare l’incolpazione elevata a carico di Giangiulio Ambrogini e Guido Neppi Modona per aver partecipato ad una manifestazione di protesta dinanzi al consolato di Spagna di Torino contro la condanna a morte di un giovane antifranchista; l’incolpazione elevata a carico di Federico Governatori, per essere intervenuto il 24 novembre 1971 ad un dibattito svoltosi nel palazzo comunale di Bologna sul tema “Pinelli: una finestra sulla strage”; L’incolpazione elevata a carico del Pretore di Prato, Luigi Ferrajoli, accusato di aver partecipato, il 22 aprile 1974 ad un dibattito presso la locale sede del PSIUP, nel quale aveva osato affermare “il sistema attuale è fatto per punire la povera gente perché abbiamo una giustizia che tocca solo loro e non i potenti” ; l’incolpazione a carico di uno dei padri di Magistratura Democratica, Marco Ramat, per aver distribuito, il 9/6/1971, un volantino con l’invito a partecipare ad un dibattito con il prete operaio don Borghi.
Ma anche la libertà dell’attività dell’associazione magistrati è stata contestata e si è realizzata con fatica. Penso all’incolpazione disciplinare sollevata a carico del magistrato Guido Galli, giudice istruttore a Milano, vilmente assassinato da “Prima Linea” il 19 marzo 1980, al quale fu contestato, assieme ad altri magistrati componenti la Giunta Esecutiva della ANM, di aver deliberato un ordine del giorno, il 30/10/1972, in cui si criticava il trasferimento del processo Valpreda a Catanzaro, che la Corte di Cassazione aveva effettuato facendo ricorso ad un istituto, qualificato di dubbia legittimità costituzionale, quale la facoltà di trasferire il processo ad altra sede giudiziaria per legittima suspicione.
Questa vicenda della legittima suspicione, come strumento utilizzabile dai potenti per neutralizzare un processo scomodo, ci aiuta meglio a capire l’impostazione alla base di una delle leggi vergogna approvate nella passata legislatura, la c.d. legge Cirami (L. 7/11/2002 n. 248) che mirava a sottrarre il processo SME alla sede scomoda di Milano, allargando le maglie dell’istituto della remissione del processo. L’interpretazione razionalizzante della riforma fatta dalla Cassazione ha fatto fallire questo tentativo, così come era fallito il precedente tentativo di bloccare lo stesso procedimento con la legge sulle rogatorie (L. 5/10/2001 n. 367), per l’interpretazione razionalizzante e conforme a diritto che i giudici hanno fatto di tale riforma.
E’ stato proprio questo atto di indipendenza reale della magistratura nell’esercizio della sua funzione istituzionale di “interpretare” la legge, che ha determinato la rabbiosa reazione della maggioranza di destra, con l’approvazione di un inusitato ordine del giorno, il 5 dicembre 2001, con cui il Senato ha sottoposto a violente critiche alcuni provvedimenti giudiziari relativi a processi penali in corso, qualificandoli come errati nel merito, eversivi del corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali e lesivi delle prerogative del legislatore, il tutto condito con gravissime accuse di faziosità e partigianeria rivolte ai singoli magistrati. In questo modo è stato violato un principio plurisecolare, precedente alla Costituzione, che vieta ai Parlamenti (ed al potere politico) di interferire nell’attività di interpretazione della legge, con riferimento al caso concreto, che istituzionalmente spetta al potere giudiziario, ed è stato realizzato un atto di intimidazione “formale” dei giudici.
La soluzione che quella maggioranza politica ha trovato per risolvere, una volta per tutte, il problema della sua incapacità di manipolare l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, è stata la riforma dell’ordinamento. Questo progetto di riforma, va valutato non solo per il risultato finale che ha prodotto, ma anche per le intenzioni che sono emerse durante il suo accidentato percorso parlamentare. E’ appena il caso di ricordare il famigerato emendamento Bobbio, attraverso il quale si voleva realizzare con la legge delega decreta una sostanziale messa fuori legge dell’Associazione Nazionale Magistrati e delle componenti associative che ne fanno parte (da Magistratura Democratica a Magistratura Indipendente). La norma disciplinare, infatti, come formulata dal nostro collega, il sen. Bobbio, infatti, non solo proibiva l’iscrizione o l’adesione a partiti politici (consentita dall’art. 99 della Costituzione), ma anche la partecipazione a “movimenti o associazioni o enti che perseguono finalità politiche o svolgono un’attività di tale natura, nonché la partecipazione a loro attività o iniziative di carattere interno ovvero ad ogni altra che non abbia carattere scientifico, ricreativo, sportivo o solidaristico”.
In questo modo si colpiva a morte l’associazionismo, anche se le associazioni dei magistrati non venivano esplicitamente sciolte, in quanto ai magistrati veniva proibito farne parte, sotto pena di sanzioni disciplinari.
Il fascismo aveva messo fuori legge l’Associazione Generale dei Magistrati italiani ed aveva espulso dalla magistratura i magistrati che l’avevano diretta, avvalendosi di una legge speciale (24 dicembre 1925 n. 2.300) che aveva disposto la dispensa dal servizio dei magistrati che: “per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori ufficio non dessero piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o si ponessero in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo.”
Nella passata legislatura la c.d. Casa della Libertà ha cercato di raggiungere lo stesso risultato, attraverso la via obliqua dello strumento disciplinare. Ma non ci sono stati solo progetti di legge contra constitutionem, ci sono state anche attività più concrete.
5. La vicenda Sismi
Quando i magistrati di Milano, indagando sulla vicenda del rapimento di Abu Omar, si sono imbattuti nell’archivio di Pio Pompa, è venuto fuori che il Sismi non solo spiava un certo numero di magistrati, ma lo faceva in quanto li considerava nemici di Berlusconi, che andavano “neutralizzati” e “disarticolati”, anche con “azioni traumatiche”. E’ interessante notare che in questo elenco di magistrati “nemici” sono finiti, tanto i magistrati che hanno effettuato il controllo di legalità sugli abusi del potere (mani pulite), quanto magistrati attivi nell’associazionismo. In questa visione l’associazionismo fra i magistrati veniva considerato un male da combattere, così come veniva considerato un male l’esercizio in modo indipendente del controllo di legalità. Le due cose sono collegate perché l’associazionismo determina una crescita della coscienza del ruolo e questa rafforza il grado di indipendenza reale nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Non a caso nell’attività di dossieraggio del Sismi è finita anche MEDEL, il coordinamento europeo fra le varie associazioni nazionali dei magistrati attive sul terreno dei diritti e delle libertà.
6. Una stagione di lotte
Se questo progetto non è passato è perché si sono sviluppati degli anticorpi istituzionali, per esempio attraverso l’intervento del Presidente della Repubblica Ciampi, e perché l’associazionismo ha manifestato una grandissima capacità di reazione.
Voglio ricordare la lotta durissima ingaggiata dall’Associazione Magistrati per denunziare all’opinione pubblica l’inammissibilità dell’attacco all’indipendenza della giurisdizione condotto attraverso la riforma dell’ordinamento giudiziario.
Voglio ricordare i quattro scioperi che si sono tenuti nel corso di soli tre anni:
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il 20 giugno 2002;
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il 25 maggio 2004;
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il 24 novembre 2004
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il 14 luglio 2005.
E poi le altre manifestazioni, la giornata per la giustizia del 5 novembre 2003, l’Assemblea nazionale per la Giustizia del 22 novembre 2003, le inaugurazioni dell’anno giudiziario con la toga indosso e la Costituzione in mano.
La partecipazione agli scioperi è stata altissima, ha sfiorato il 90%. Tenendo conto del grande pluralismo politico, culturale ed ideale che è presente nel corpo dei magistrati, una partecipazione così massiccia non si spiega soltanto con la questione corporativa sottesa alla riforma. Un tasso così alto di partecipazione si spiega soltanto con la convinzione che sono in gioco grandi principi, che si trattava di un dovere civile da adempiere. Ciò ha reso questi scioperi una manifestazione di resistenza costituzionale.
Un grande segnale di resistenza costituzionale è stato lanciato ai cittadini italiani, che l’hanno raccolto ed amplificato nella partecipazione al voto sul referendum costituzionale.
7. I Valori della Giurisdizione e la critica alla Giurisprudenza
Ma non sono tutti rose e fiori. Anni di attacchi, di intimidazioni, alla fine lasciano il segno, scavano percorsi di de-politicizzazione, di disimpegno, di conformismo, che inevitabilmente si riflettono sulla qualità della giurisdizione e sul livello di indipendenza reale
L’esigenza di difendere la casa che bruciava ha fatto da velo all’appassimento della capacità di mantenere sempre alto il livello di critica nei confronti dell’esercizio concreto della funzione giurisprudenziale.
E’ bene precisare che la critica dei significati e dei valori espressi nell’attività giurisprudenziale non ha niente a che vedere con i rozzi attacchi ai magistrati, o con le aggressioni che tendono ad intimidire l’esercizio della giurisdizione. Nella dialettica democratica essa è necessaria perché rappresenta l’unico contrappeso alla libertà del decidere e costituisce un potente fattore di educazione e di crescita della coscienza dei singoli magistrati e del corpo dei giudici nel suo complesso.
Per questo mi rammarico che sia passata quasi inosservata una inconcepibile ordinanza delle Sezioni Unite Civili della Cassazione che ha sancito la totale irresponsabilità degli atti compiuti dai pubblici poteri nella conduzione di attività belliche, vietando ai giudici di effettuare il controllo di legalità. Mi riferisco ad un’ordinanza del 5 giugno 2002 (caso Markovic) in cui, con riferimento ad una strage commessa dalla NATO in Jugoslavia, che ha provocato la morte di 16 persone innocenti, si afferma questo testuale principio:
“La scelta di una modalità di conduzione delle ostilità rientra tra gli atti di Governo. Sono questi atti che costituiscono manifestazione di una funzione politica, della quale è nella Costituzione la previsione della sua attribuzione ad un organo costituzionale: funzione che per sua natura è tale da non potersi configurare, in rapporto ad essa, una situazione di interesse protetto a che gli atti in cui si- manifesta assumano o non. assumano un determinato contenuto (..) Rispetto ad atti di questo tipo nessun giudice ha potere di sindacato circa il modo in cui la funzione è stata esercitata.”
Orbene se passa il principio che …….le stragi sono atti di Governo, insindacabili dai giudici, allora noi dobbiamo preoccuparci non poco e dobbiamo chiederci a cosa serve la giurisdizione.
E’ ben vero che la Cassazione si è pentita di questo strappo ed i principi espressi nell’ordinanza del 2002 sono stati rovesciati da una Sentenza della Sezioni Unite (caso Ferrini) del 11 marzo 2004, che ha riaperto il controllo di legalità anche nei confronti degli illeciti internazionali derivanti da azioni dei governi, ma un dibattito così gravido di conseguenze per i diritti dei cittadini, tenendo conto che viviamo in un tempo di emergenza in cui stanno riemergendo comportamenti e pratiche che ritenevamo consegnate alla notte dei tempi, non può restare chiuso nella dialettica degli interna corporis .
L’associazionismo deve riprendere fiato e deve parlare, ad alta voce.
E’ diventata, pertanto, di nuovo attuale la lezione di un maestro “carismatico” del diritto, Domenico Barbero, che nell’introduzione del suo testo di diritto privato, non si stancava di denunziare i guasti di una interpretazione pedestre della legge, che aveva ridotto la Giurisprudenza dalla maestà di una “divinarum atque humanarum rerum notizia” ad una “meccanica esercitazione di codice” Questo metodo – denunziava Barbero – “ha prodotto l’ambiente e le condizioni tecniche ideali per la dittatura fascista. Che non sarebbe forse passata con una giurisprudenza più cosciente e, pertanto, più gelosa della sua superiorità della sua funzione; e che potrebbe anche ripresentarsi se la giurisprudenza non si affretta a prendere coscienza di codesta superiorità, a rifarsi un abito mentale che ripristini la ragione, dovunque sia bandita..fosse anche dalla legge, e a considerare sé stessa non come fucina di sentenze ottenute meccanicamente attraverso l’introduzione di un articolo di legge, ma fattrice di giustizia indagata e, se occorre, faticosamente rintracciata al vaglio di tutti gli elementi di ragione, chiudendo anche arditamente la porta di fronte a chiunque pretenda di entrare nel suo stesso tempio a portarvi la profanazione con lo stivale speronato o con la faccia infarinata.”
Noi dobbiamo lavorare insieme perché la giurisprudenza, come richiedeva Barbero, riacquisti la maestà di “divinarum atque humanarum rerum notizia”
Domenico Gallo