Per un progetto di Md per la rappresentanza di genere nella magistratura

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    1.
    Il seminario sulla differenza di genere e la condizione femminile
    nella magistratura italiana, organizzato a Milano nella primavera
    2004, per i temi in discussione ed il rilievo politico-culturale
    delle relazioni e degli interventi (alcuni dei quali sono pubblicati
    in questo obiettivo), ha rappresentato un momento di
    riflessione "alta" per Magistratura democratica, che è
    sperabile possa divenire patrimonio di tutta la magistratura del
    nostro paese. Anche la decisione, certamente frutto di una
    particolare sensibilità, di affidare ad un uomo
    l’introduzione della giornata di studio ed il coordinamento
    della prima sessione, in cui il tema è stato sviluppato in
    relazione a problemi dell’organizzazione giudiziaria, indica
    fin da subito la "cifra" dell’iniziativa, denota
    l’importante acquisizione, palesatasi anche nella discussione,
    iniziata di fatto circa un anno fa, all’indomani delle
    elezioni associative e portata avanti da molti sul tema "donne
    e magistratura" sulla mailing list di M.d.: la questione
    della irrisoria presenza femminile in ruoli di responsabilità
    sia nell’organizzazione sia nella rappresentanza istituzionale
    ed associativa della magistratura italiana non è una tematica
    settoriale, di "nicchia"; non è un orticello da
    dissodare e coltivare con la cura delle sole donne, della sola
    componente femminile della magistratura. Essa rappresenta un
    problema di tutti e di tutte. Un problema che investe - nel nostro
    campo d’indagine, ma anche più in generale – ogni
    magistrato/a ed alla cui soluzione serve l’intelligenza di
    tutti e di tutte, perché - come già tanti hanno
    sottolineato nel dibattito telematico - è una questione
    concernente la qualità della stessa democrazia.

    2.
    Va ricordato anche come l’idea di un approfondimento sui temi
    sia maturata con la finalità di fare in modo che almeno M.d.
    (l’unico gruppo ad aver realizzato in concreto l’indicazione
    dell’A.N.M. di presentazione di una consistente percentuale di
    candidature - e di elette - al femminile per il rinnovo del Comitato
    Direttivo Centrale dell’estate 2003) "facesse sul serio"
    qualcosa per invertire l’imbarazzante dato numerico della
    minima presenza di donne alle "cariche" di qualunque tipo
    nell’organizzazione giudiziaria e nelle sedi della
    rappresentanza dei magistrati, sia istituzionale sia associativa. E’
    opinione diffusa ed accettata, infatti, che i meccanismi di accesso
    a tali posti di responsabilità, così come sono e sono
    gestiti da decenni, da sempre favoriscono gli uomini (G. Civinini 10
    giugno 2003).L’intenzione di approfondire l’analisi e di
    trovare strumenti per realizzare il riequilibrio del dato numerico,
    tuttavia, non è stata la sola "spinta", l’unico
    scopo di coloro che in questi mesi hanno cominciato la riflessione
    in argomento. Questa tensione verso una maggiore presenza numerica
    femminile è stata correttamente intesa soltanto come il mezzo
    per raggiungere anche qualcos’altro.Infatti, la necessità
    di riequilibrare la rappresentanza di genere sul versante
    organizzativo (incarichi semidirettivi e direttivi, assegnazione di
    incarichi nella formazione o di tipo extragiudiziario) e delle
    istituzioni politico-istituzionali (C.S.M., Consigli giudiziari,
    Associazione), la concreta immissione di donne-magistrato in
    ruoli/posti di responsabilità, è (dovrebbe essere,
    speriamo che sia) prima di tutto una scelta di qualità: in
    tutti i sensi. E’ stato questo, in effetti, l’input
    principale, la convinzione fondamentale delle numerose
    sollecitazioni maturate nella discussione informatica: ho riletto il
    centinaio di mail riversate sulla lista sull’argomento;
    tutte - tranne quelle di qualche disinformato o di un maschilista
    incallito – hanno espresso una forte volontà di capire,
    di uscire dal trito dei luoghi comuni, di trovare e proporre qualche
    "geniale" soluzione.Inoltre, è stato chiaro e va
    ribadito che la questione della "qualità" non è
    riservata - come un dibattito ultratrentennale in argomento potrebbe
    lasciar credere - soltanto alla sfera della rappresentanza politica.
    Il senso profondo, direi il principale, che ha suscitato le energie
    degli organizzatori del seminario ed ha dato la stura già ad
    un vivace confronto telematico, è rappresentato dal fatto che
    anche nell’organizzazione giudiziaria e nella sua gestione
    funzional-burocratica la "qualità" della componente
    femminile presuppone (è questa la "scommessa" o, se
    volete, la certezza che ci muove), aggiunge qualcosa d’altro e
    di positivo all’esistente.Le ipotesi di lavoro su cui si è,
    dunque, riflettuto sono partite da questo convincimento. E dai
    risultati del questionario compilato dalle magistrate del
    Nord-Italia, illustrato da Francesca Zajczick, con il quale si è
    provato a scoprire e analizzare anche le "ragioni" più
    radicate e nascoste dell’"assenza" femminile dai
    luoghi di "potere". Per tentare di dare qualche risposta e
    indicazioni di percorsi. Non posso anticipare e riprodurre la
    discussione vivace e plurale che è soltanto iniziata nel
    seminario di Milano su questi temi; peraltro è utile
    ricordare come già dal dibattito sulla mailing list
    sono emerse - anche per la questione-organizzazione - alcune idee e
    suggestioni, autodefinite provocatorie (M. Nardin 10 marzo 2004;
    Elena Riva Crugnola 16 marzo 2004), ma in realtà mica tanto.

    Dunque,
    così come in sede di dibattito generale sull’argomento
    del riequilibrio di genere si fa cenno alla necessità di una
    "ricomposizione della politica", che non è e non
    può essere declinata soltanto al maschile, e come questo –
    supponiamo - possa e debba realizzarsi anche per la rappresentanza
    politico-istituzionale della magistratura, così sono convinto
    che sia anche per l’organizzazione degli uffici giudiziari, in
    ordine alla quale tanto ancora deve essere fatto per raggiungere
    standards decenti in termini di "servizio" per i
    cittadini.Nel nostro "piccolo", dunque, per le une ed
    anche per le altre diverse questioni della rappresentanza politica,
    M.d. ha l’ambizione di provare a ragionare sulle possibili
    misure che rimettano in contatto le "sfere" separate del
    maschile e del femminile: diviene, quindi, a mio avviso, inevitabile
    interrogarsi su ciò ed altrettanto partire dalla
    consapevolezza (la profonda convinzione che ci ha fatto discutere a
    Milano e ci induce ad approfondire le questioni) della necessità
    del "riconoscimento" pieno nella "sfera pubblica"
    della diversità femminile al fine di "offrire" a
    questa sfera pubblica (ossia, per quanto ci riguarda, all’ordine
    giudiziario nel suo insieme) anche l’esperienza di
    affettività, passioni, interessi non razionalizzabili,
    indicati da molti/e già nella discussione telematica come
    "cifra" insopprimibile del genere femminile. Si pone,
    pertanto, la necessità di affermare la plausibile
    scelta/preferenza di una donna anche sui nostri piani di
    riflessione, in quanto portatrice di una visione "altra".
    E non certo per attribuire a M.d. una "medaglietta al valore"
    (come causticamente rifiuta R. Sanlorenzo 31 maggio 2003) e con
    reciso diniego della pratica della cooptazione, tipica espressione
    di modalità maschili di percorsi professionali e politici
    (come precisa G. Civinini 8 giugno 2003). Mi piace qui riprendere,
    con una lunga citazione, alcune delle considerazioni espresse nella
    discussione sulla m.l. (F. Pilato 16 giugno 2003), che "condensano"
    con efficacia il pensiero di tanti e di tante e secondo cui,
    appunto, la specificità femminile in magistratura esiste, se
    è vero che ogni scelta discrezionale del giudice è
    espressione del suo inevitabile "fare politica", nel senso
    che alla base di ogni decisione c’è la sensibilità
    culturale del magistrato, la sua concezione e la sua scelta di
    valori, la sua adesione alle istanze e alle esigenze della
    collettività in cui vive, la sua appartenenza al corpo
    sociale e la sua personale posizione nella società, anche di
    genere.

Per
concludere che, se dal punto di vista professionale sembra raggiunta
un’effettiva parità (salvo quanto a incarichi direttivi
e semidirettivi), essa non si è raggiunta sul piano della
rappresentanza politica: è un problema di tutta la
magistratura (non di un "gruppetto di amazzoni guerriere":
così F. Pilato), perché questa situazione costituisce
un "deficit di democrazia", come se a rimanere fuori dal
circuito rappresentativo fosse un’intera categoria di
magistrati. Da questa situazione è partita l’idea
complessiva di questo seminario che ha come primo scopo il
superamento della pur meritoria estemporaneità della scelta
operata dal Consiglio Nazionale per le elezioni del C.D.C.
dell’Associazione magistrati. Con il proposito d’individuare
un vero e proprio complessivo progetto di Magistratura democratica
per la rappresentanza di genere in magistratura, nel tentativo di
coniugare all’interno di questo ceto professionale le due sfere
della razionalità-giustizia-potere e della cura-affettività
(l’"intelligenza emotiva": A. Di Florio 10 marzo
2004). Per entrambe le angolature della riflessione, l’idea
forte è l’inizio di questa progettazione, che diventi in
seguito "sostanza" dell’azione di M.d. e delle sue
scelte di politica giudiziaria, quindi dell’A.N.M., per in
seguito tradursi anche in progetti per la normativa secondaria del
C.S.M. ovvero quali indicazioni per (tuttavia lontane) modifiche
della disciplina primaria, la quale dovrà comunque in un
futuro non remoto trovare strumenti di adeguamento ai principi
stabiliti dal nuovo art. 51 Cost.

3.
Riguardo al versante della rappresentanza politica segnalo in ogni
caso una necessità, quella di interrogarsi e discutere senza
tiepidezze, nella duplice consapevolezza - da un canto - che esiste
certamente anche nella magistratura italiana un inconfessabile
"pregiudizio di genere" (altrimenti non si spiegherebbero
tante cose) e - dall’altro - che non è più tempo
di elaborare teorie, ma quello di iniziare a trovare anche differenti
modalità di "fare" politica istituzionale ed
associativa. Dare "forme" conseguenti all’agire
politico di M.d. e spingere perché ciò avvenga anche
nei "luoghi" politico-istituzionali in cui opera
Magistratura democratica. Ebbene, l‘"antidemocratica"
condizione di bassa partecipazione delle donne in posti di
responsabilità impone oggi alla nostra analisi, ma anche e
soprattutto alle nostre proposte concrete per una effettiva
"inversione di rotta", di misurarci con la tematica delle
pari opportunità e delle azioni positive. Anche nel dibattito
telematico, come in generale in ambito politico, si è già
a lungo discusso, in teoria e in pratica, della controversa misura di
riequilibrio consistente nelle "quote": il tema, a mio
avviso è cruciale; ed è anche un tema scottante, come
tutti quelli che rimandano alle questioni del concetto della
"uguaglianza sostanziale" (art. 3 cpv. Cost.) e della
concreta attuazione di essa, in irresolubile contrasto per alcuni con
la stessa teoria classica della democrazia e dell’uguaglianza.
Da sempre, tuttavia, "orizzonte di senso" dei magistrati
democratici e di tanta parte della magistratura italiana. Certo, le
"quote" sono uno strumento da maneggiare con cautela e non
è consigliabile improvvisarsi "apprendisti stregoni".
Tante suggestioni possono intersecarsi sull’argomento. Preciso
subito, peraltro, che esse non possono certo ridursi a divenire un
mero criterio di rappresentanza proporzionale di una "categoria
separata" (G. Cannella 1° giugno 2003); la posta in gioco,
però, è proprio questa: completare, coniugare, non
tenere separate le rappresentanze.

4.
Due ultimi accenni su questioni che mi stanno particolarmente a
cuore
.

a)
La prima ha l’ambizione di allargare lo sguardo "fuori"
la magistratura, allo scopo di segnalare come le tematiche del
riequilibrio di genere, ma soprattutto di quanto vi è
collegato in termini di pari opportunità e divieto di
discriminazione, appaiano sempre più in grado di essere
"esportate" nei riguardi di tutti i diversi "fattori
di svantaggio" nella vita privata (in particolare, il lavoro, ma
non solo) e pubblica degli individui. E come, di conseguenza, la
riflessione cominciata nel seminario di Milano si inserisca, pur
nelle contingenze e "ristrettezze" del suo angolo visuale,
in un discorso molto più ampio che da tempo studiosi del
diritto (costituzionalisti come Azzariti e Dogliani, giusprivatisti
come Rodotà, Irti, Roppo, filosofi del diritto come Sordi e
Mannoni, giuslavoristi come D’Antona, Perulli, Romagnoli),
sociologi del diritto (Ferrarese), economisti (Stiglitz) e politologi
tout court, vanno portando avanti sui temi che fanno da sfondo
ad un’endiade di moda: globalizzazione e diritti. Ebbene, per
farla breve, nelle analisi e nelle speculazioni de jure condendo
che partono dal rifiuto di una regolamentazione affidata alla sola
lex mercatoria, s’individua da parte di molti
nella categoria dei "diritti fondamentali" lo snodo
cruciale su cui costruire progetti di avanzamento politico e sociale.
Tra i diritti fondamentali quello della parità-non
discriminazione (di cui vogliamo discutere i profili peculiari
nell’agire professionale della magistratura, per quel che
riguarda la differenza di genere), ad avviso di tanti, rappresenta
una sorta di "metaprincipio", di "pietra angolare"
su cui edificare il "castello" dei diritti individuali e
collettivi della persona e giunge così ad acquisire un ruolo
di assoluto rilievo.

b)
La seconda indicazione, che affido al dibattito a seguire, attiene ad
un aspetto toccato anche nella discussione telematica, che ha
preceduto la riflessione seminariale (R Sanlorenzo 31 maggio 2003; I.
Casol 10 giugno 2003; G. Zaccardi 10 marzo 2004; F. Pilato 12 marzo
2004; A. Di Florio 19 marzo 2004), ossia alla "conciliazione"
dei tempi di lavoro e di vita, in ultima analisi alla stessa
"qualità" della vita. Com’è noto, il
tema della "conciliazione" è sempre stato correlato
in generale al lavoro femminile (sebbene sia il momento di iniziare
un discorso "pubblico" sul coinvolgimento anche degli
uomini su tale versante, ritenuto d’esclusiva pertinenza delle
donne) ed è evidente che il lavoro del magistrato - in
generale e tranne alcuni "mestieri" di frontiera - consente
un’organizzazione di vita certamente più elastica, una
"progettazione" dei propri tempi più agevole.
Tuttavia, anche nel nostro ceto professionale assistiamo alla
perpetuazione di uno schema universale: la "progettazione"
per la donna-magistrato assicura sì maggiori spazi (rispetto
ad altre attività, anche di tipo professionale), ma questi
sono tuttora dedicati soprattutto al "lavoro di cura", per
l’uomo-magistrato a "fare titoli", ovvero
all’attività di ricerca di ricerca o alla stesura di
sentenze-trattato.

Ed
allora anche noi magistrati, chiamati a ragionare sulle questioni di
"genere", dobbiamo cogliere l’opportunità di
guardare con attenzione ed interesse ad alcune tendenze (ancora
embrionali, ma chiaramente presenti nella contrattazione collettiva
di alcuni settori) di cambiamento del senso e dell’organizzazione
del lavoro, le quali - nelle ipotesi "virtuose" in cui si
cerchi di coniugare le domande di "flessibilità"
della prestazione lavorativa provenienti dalle imprese ed in parte da
lavoratori e lavoratrici (e dalle famiglie) - hanno consentito di
affermare che si stia producendo una "nuova costruzione sociale
del rapporto tra lavoro e non-lavoro" caratterizzata da
frequenti sovrapposizioni ed interferenze tra vita lavorativa e vita
privata. Questo non risolve di per sé il problema del "doppio
lavoro" femminile, ma può essere una strada da cogliere
per interrompere il "destino" delle donne.

04 05 2004
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