Sono onorato di parlare in questa sede e ringrazio gli organizzatori del congresso di avermi invitato. Non sono un giurista e tuttavia mi trovo qui, come un testimone qualsiasi, per parlare in difesa della giustizia e della Costituzione. Che esse siano oggi minacciate è una sensazione diffusa in una vasta opinione pubblica: un allarme sociale che si solleva dopo un periodo durante il quale è cambiato il modo con cui molti cittadini guardano all’operato della magistratura.
Non sono lontanissimi i tempi in cui essa poteva essere vista come una casta privilegiata, lontana dal popolo e sodale delle classi dirigenti. Ma negli ultimi anni l’identificazione tradizionale fra magistratura e classi dirigenti è stata smentita e la magistratura ha interpretato il suo ruolo costituzionale di potere indipendente. Lo ha fatto senza proclami e gli atti giudiziari hanno cominciato a svelare l’intreccio tra la politica e gli affari.
Così i cittadini hanno potuto avere, a seconda dei casi, la conferma dei loro sospetti o la rivelazione di un panorama impensabile. Che si può sintetizzare con una certa semplicità. Il finanziamento sempre pi costoso della politica aveva bisogno di una massa crescente di soldi. L’aspirazione di molti protagonisti degli affari a liberarsi in modi spicci della concorrenza li metteva a disposizione. Lo scambio reciproco di finanziamenti al nero e favori illegali ha costituito per anni il rapporto normale tra la politica e gli affari. Ne erano svantaggiati i politici che non si facevano finanziare e gli imprenditori che non si facevano favorire.
Quando la magistratura ha cominciato a svelare le libertà che politici e imprenditori si prendevano nel falsificare i loro bilanci, e i costi enormi che ne discendevano per l’erario pubblico, i cittadini hanno scoperto che la legge poteva occuparsi di argomenti prima spesso trascurati. In precedenza solo rare eccezioni: i pretori d’assalto, per questo segnati a dito.
Ma dopo uno smarrimento iniziale dovuto alla sorpresa, con politici e imprenditori presi con le mani nel sacco, è cominciata la reazione.
Si è cominciato a dire che le indagini nuocevano agli affari, a lamentare l’eccesso di severità, a protestare contro gli abusi. I potenti hanno scoperto il garantismo solo quando sono stati indagati. Da allora è stato un ritornello: la politica doveva riprendere la sua supremazia, senza farsi troppo imbrigliare dalla giustizia.
Quella degli ultimi anni è la storia di come la politica e gli affari si sono presi la loro rivincita sulla giustizia. Gli affari in silenzio, la politica a voce sempre pi alta. Dopo la parentesi effimera e i conati maldestri del primo governo di centrodestra nel ’94, la rivincita della politica è continuata, duole dirlo, in sordina con i governi che gli sono succeduti, ed è apparsa bene in vista nella Bicamerale, le cui bozze di riforma avevano tra l’altro l’effetto -involontario?- di frustrare l’azione dei magistrati.
I veri temi della giustizia (lunghezza dei processi, difesa degli interessi delle vittime, certezza delle pene, autentiche misure contro la corruzione, situazione disastrosa delle carceri) non sono mai stati affrontati dal parlamento, che ha invece alimentato un barocco intreccio di dispositivi in palese contrasto reciproco con un unico risultato certo, ormai illustrato nelle riviste specialistiche: la progressiva demolizione del processo penale.
Al contrario di ciò che ha sostenuto la propaganda del centrodestra sulle toghe rosse e sull’uso che se ne sarebbe fatto per eliminare gli avversari politici, oggi sembra pi vicino alla verità l’assunto opposto e cioè che il centrosinistra ha piuttosto spianato la strada al centrodestra, oltre che con la rinuncia a una legge seria e rigorosa sul conflitto d’interessi, anche con il suo non indifferente contributo a limitare l’azione della magistratura.
La vittoria del centrodestra nelle ultime elezioni politiche rappresenta in un sol colpo la rivincita della politica e degli affari riuniti finalmente in un solo governo, in una sola persona. E poichè gli affari pretendono l’impunità assoluta per i fatti legati alla loro accumulazione primitiva, fatti che in parte si configuravano come reati secondo la legge preesistente, la politica s’ingegna di servirgliela.
Prende forma così fin dall’inizio della legislatura un progetto di legalizzazione dell’illegalità che si estende dalla depenalizzazione del falso in bilancio fino all’ipotesi, di recente ventilata, di depenalizzare i reati di danno ambientale.
Questo incoraggiamento all’illegalismo diffuso, ben espresso con la tolleranza verso l’abusivismo, potrebbe avere anche un significato aggiuntivo oltre quello egoistico: un espediente per far apparire leggi ad personam come se fossero erga omnes. Mentre in realtà siamo di fronte al tentativo insidioso di stabilire vaste complicità sociali verso l’illegalismo dei potenti.
Alla legalizzazione dell’illegalità segue la ricerca dell’impunità assoluta per i reati non legalizzabili. Così si apre la possibilità di sfuggire al giudice precostituito per legge e di peregrinare nelle corti italiane alla ricerca di un giudice di proprio gradimento. Molti commentatori hanno già spiegato come leggi di questa natura producano, per motivi oggettivi, una sostanziale disparità dei cittadini di fronte alla legge e siano perciò in intimo contrasto con il principio costituzionale. Sempre su questa strada altri progetti avanzati da esponenti della maggioranza proveranno a garantire l’impunità assoluta per i potenti al prezzo di bloccare in modo definitivo la macchina giudiziaria.
Molti studiosi hanno fatto rilevare come legalizzazione dell’illegalità e perseguimento dell’impunità siano il prodotto diretto del conflitto d’interessi pi preoccupante subito dopo quello del presidente del consiglio, e cioè quello dei suoi avvocati parlamentari che lo difendono dai processi e che in parlamento modellano le leggi sulla base delle loro esigenze processuali.
Tutto ciò è stato accompagnato dallo strumento abituale dell’attacco diffamatorio, alimentato dai mezzi d’informazione di famiglia, contro una magistratura che non accetta di venir meno al rispetto dei principi costituzionali. Durata e continuità di questo attacco sono impressionanti e spaziano dal puro insulto televisivo al tentativo di intimidire le corti giudicanti. Potere esecutivo, legislativo e mediatico concentrati in un’offensiva contro il potere giudiziario.
In questa offensiva c’è un aspetto curioso, inedito. Il potere politico usa contro la magistratura gli stereotipi dell’antica critica sociale. Nelle incisioni e nelle caricature di Hogarth, Daumier, Grosz, e non sempre in modi pi blandi nelle letterature coeve, i giudici sono rappresentati come i peggiori della classe dominante: bocche avide, nasi grifagni, sguardi insinuanti e perfidi. Ecco la giustizia, sembrano dire: solo arbitrio e sopraffazione! Ed erano i riformisti inglesi e i socialisti francesi e tedeschi ad apprezzare quella critica corrosiva.
Al contrario le classi dominanti hanno incorporato la magistratura, nei regimi assoluti con la consanguineità di classe, nelle società democratiche con l’uso sapiente e dosato della separazione dei poteri. E’ curioso vedere il massimo rappresentante attuale della classe dirigente sfrenato contro i giudici, in prima persona e tramite dipendenti. Viene da pensare che non si senta abbastanza classe dirigente...
C’è una stretta connessione molteplice fra questo generale stravolgimento delle leggi e l’incrinamento dei principi e delle garanzie costituzionali. In primo luogo si tratta, come ha già sostenuto Luciano Violante in un convegno presso il Senato, di leggi in gran parte incostituzionali. Già questo basterebbe. Per di pi in numerosi casi si viola il principio cardine dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. In terzo luogo questo tentativo di stabilire per il presidente del consiglio la condizione di perfetto legibus solutus non può essere separato dall’altra condizione che lo caratterizza fin dall’inizio: il suo essere monopolista televisivo privato e dall’inizio della legislatura controllore di fatto delle reti televisive pubbliche. Combinazione di recente stigmatizzata a grande maggioranza da un voto ufficiale nel Parlamento Europeo.
Il risultato di fatto è che mai dalla fine del fascismo tanto potere era stato concentrato nelle mani di una persona sola. La quale sembra non esserne appagata e non nasconde di volerne di pi. Di qui i progetti di modifica della Costituzione con questa precisa funzione strumentale, dichiarata pubblicamente. Insomma la Costituzione, secondo le intenzioni, dovrebbe essere strapazzata come già sono state le leggi ordinarie per assecondare l’interesse di una ristretta oligarchia.
La disinvoltura nei confronti della carta costituzionale non stupisce in questa maggioranza di governo. Essa infatti è formata per tre quarti da forze politiche che non hanno dato alcun contributo all’elaborazione e alla stesura del testo. Alleanza nazionale è l’erede, quanto lontana?, degli sconfitti della guerra, nemici di una Costituzione originata e pensata nel fervore della lotta antifascista. La lega è una forza recentissima, separatista, così rispettosa della Costituzione che non nasconde il progetto di tre corti costituzionali separate per nord, centro e sud. Forza Italia è un partito nato da un’azienda che sente pi forte di tutto il richiamo degli interessi privati del suo fondatore e lo dimostra tutti i giorni in parlamento.
Di fronte a una tale estraneità allo spirito costituzionale l’Ulivo avrebbe dovuto manifestare una maggiore capacità di protezione e salvaguardia. Al contrario la sua classe dirigente sembra orientata a seguire senza troppe preoccupazioni le forze politiche avversarie sulla via di una modifica dell’equilibrio tra i poteri costituzionali mediante un deciso rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. Considerati i poteri reali ed extraistituzionali dell’attuale detentore dell’esecutivo non sembra davvero un’idea geniale concedergli anche il potere di sciogliere le camere, nel caso (che non si può escludere a priori) di una sua nuova vittoria elettorale! E’ vero che non si possono modellare le istituzioni sulla base di elementi contingenti, ma non ci si può nemmeno rifiutare di vedere come un certo elemento contingente, già adesso e senza il potere di scioglimento, gravi sulla vita della Repubblica come una vera e propria anomalia istituzionale.
La democrazia, la sua origine nella lotta antifascista, la sua codificazione nella carta costituzionale hanno rappresentato per le generazioni cresciute dopo la liberazione lo sfondo naturale della loro vita, uno scenario che man mano che passavano i decenni diveniva sempre pi abituale, sempre meno problematico: un dato acquisito che non aveva pi bisogno di essere motivato con delle ragioni, riconquistato ogni giorno con l’azione volontaria, riconfermato nel futuro da una applicazione consapevole.
Ma nell’ultimo anno e mezzo di legislatura molti cittadini sono stati costretti riscoprire l’attualità stringente dei valori costituzionali proprio perch essi sono stati messi in pericolo. E’ quando la Costituzione viene ferita che ci si accorge della sua presenza.
Così di fronte ai tanti tentativi di piegarla e di distorcerla hanno preso forza movimenti spontanei che tra i principali motivi della loro azione hanno posto la difesa della Carta costituzionale. Dopo decenni in cui il dibattito sulle modifiche costituzionali era confinato a un gruppo ristretto di studiosi e di riviste specialistiche, la Costituzione ha ripreso posto in mezzo alla platea dei cittadini.
Il ragionamento dei suoi difensori ha spesso un aspetto conservatore, nel senso letterale del termine. Ci si dice: poichè le modifiche immaginate portano sicuri peggioramenti, va difesa così com’è. In questo atteggiamento c’è forse un’ingenuità ma anche una saggezza, come testimonia il pensiero di molti validi costituzionalisti, che hanno trascorso la loro vita professionale a difenderla piuttosto che a immaginare sue modificazioni.
Può darsi che questa difesa strenua dell’integrità della Costituzione corra il rischio di rappresentare il suo testo, ai suoi nuovi e forse ingenui lettori, come un’opera conchiusa e perfetta. Non è così. Come ben sapevano i membri della Costituente, e come hanno testimoniato generazioni di studiosi, la Costituzione è un’opera imperfetta e sbilanciata. L’Incompiuta, la chiamava Calamandrei. Quasi precocemente mummificata nei primi sette anni dalla sua promulgazione, bloccata dalla guerra fredda, inceppata dal rinvio lunghissimo nell’insediamento della Corte Costituzionale, e da quello ancora pi lungo del Consiglio superiore della magistratura. Non realizzata, se non per timidi assaggi, nelle sue intenzioni programmatiche.
Questa Costituzione, che oggi da pi parti si vuole considerare superata, non ha ancora espresso tutte le potenzialità progressive concentrate nel suo dettato. Ma la sua illustrazione al nuovo pubblico che la sta riscoprendo ha tutto da guadagnare non solo dalla spiegazione del suo cammino tormentato dopo la promulgazione: altrettanto didascaliche sono l’illustrazione dei contrasti dottrinari e ideologici, la cronaca dei dibattiti preparatori, spesso profondi e stringenti, la narrazione della fatica che fu necessaria per pensarla e scriverla, in un momento in cui fortissime contrapposizioni politiche e sociali non impedirono tuttavia alla collettività dei costituenti la capacità di disegnare principi comuni.
La fatica della Costituzione è ben rappresentata negli interventi di molti costituenti, con toni che dalla serietà e dall’analisi pungente non temono di passare ogni tanto a qualche nota francamente umoristica. A esempio di questa umanità posso ricordare qui solo l’esame critico riassuntivo svolto da Calamandrei nella seduta del 4 marzo 1947, in cui conduceva una rassegna impietosa di tutti punti deboli o carenti della carta costituzionale, ma che aveva il cuore di terminare con uno slancio che qui non posso sintetizzare ma solo leggere, con qualche piccolo salto per la scarsità di tempo disponibile:
"Questo che noi facciamo è il lavoro che un popolo di lavoratori ci ha affidato, e bisogna sforzarci di portarlo a termine meglio che si può, lealmente e seriamente. Non bisogna dire, come da qualcuno ho udito anche qui, che questa è una Costituzione provvisoria che durerà poco e che, di qui a poco, si dovrà rifare.No: dev’essere una Costituzione destinata a durare...Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea costituente...credo che i nostri posteri sentiranno pi di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno seduti su questi scranni non... noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma...tutto un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità.
Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità...A noi è rimasto un compito cento volte pi agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società pi giusta e pi umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore."