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Anche i
magistrati infine, dopo attese e ripensamenti, hanno proclamato lo
sciopero. Anche i magistrati, dopo medici, tranvieri, metalmeccanici,
insegnanti, ferrovieri, piloti, giornalisti e via elencando. Perché,
dunque? Per preconcetta opposizione corporativa a ogni progetto di
cambiamento della giustizia, come provocatoriamente sostiene
il ministro Castelli? o per ostilità politica nei confronti
del governo, come pateticamente affermano autorevoli esponenti della
maggioranza (tra cui magistrati "apolitici" come il sen.
Bobbio e l’on. Nitto Palma)? Ovviamente le ragioni sono ben
altre.
C’è
anzitutto per una questione di metodo. Dopo l’approvazione da
parte del Senato di un progetto di riforma dell’ordinamento
giudiziario criticato persino da chi lo aveva votato, il relatore e
il presidente della Commissione giustizia della Camera avevano
manifestato disponibilità al dialogo, dichiarando di
apprezzare le proposte alternative avanzate dall’Associazione
nazionale magistrati e dicendosi intenzionati a tenerne conto e, in
alcuni casi, addirittura a recepirle. Di qui la sospensione dello
sciopero già proclamato. Ma la "nuova fase" di
confronto si è chiusa, in realtà, ancor prima di
cominciare: i cinquecento emendamenti presentati (evidentemente a
mero scopo dilatorio) da parlamentari dell’area governativa
sono stati ritirati e sostituiti da poche modifiche "blindate"
(talune delle quali peggiorative del testo approvato dal Senato), il
dibattito parlamentare è ripreso con tempi contingentati e la
maggioranza dichiara di voler approvare il nuovo testo entro il mese
di maggio. Il confronto si nutre anche del rispetto degli impegni
pubblicamente assunti: chi, stracciando quegli impegni, cerca lo
scontro non può fingere sorpresa di fronte alle conseguenze
del suo comportamento. Ed è grottesco il tentativo di far
credere, come se tutto fosse manifesto elettorale, che le "richieste"
dei magistrati sono state in buona parte accolte …

C’è
poi, ovviamente, il merito. Il disegno del governo e della
maggioranza resta invariato. Ciò che si propone è: a)
la trasformazione dei magistrati in burocrati, con una selezione
fondata non sulla capacità di "rendere giustizia" ma
su un tourbillon di concorsi teorici (idonei, come la storia
insegna, soltanto a "promuovere" chi è omogeneo ai
selezionatori); b) un’organizzazione del sistema
giudiziario di tipo gerarchico, con conseguente forte condizionamento
dei singoli; c) la separazione di fatto delle carriere di
giudici e pubblici ministeri, non temperata dal concorso unico
iniziale (caratterizzato da una sorta di "prescelta"
all’atto della iscrizione e dalla scelta definitiva tre anni
dopo l’ingresso in carriera); d) la fine dell’azione
penale diffusa e il ripristino, con la centralizzazione dell’ufficio
del pubblico ministero e la reintroduzione del potere di avocazione,
del potere assoluto dei procuratori della Repubblica (veri "signori
del processo"); e) la contrazione del governo autonomo (e
dunque dell’indipendenza) dell’ordine giudiziario,
attuata sottraendo al Consiglio superiore rilevanti poteri in tema di
formazione, di organizzazione degli uffici, di promozioni; f)
l’introduzione di una sorta di controllo politico sui
magistrati, realizzata attraverso la previsione di ipotesi di
responsabilità disciplinare per l’attività
interpretativa e la partecipazione alla vita pubblica. L’obiettivo
è il ritorno al passato, alla situazione precedente la
Costituzione e a quella degli anni ’50 e ’60, quando –
per usare le parole di Luigi Ferrajoli – la magistratura era
"un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia
di ceto: un "corpo separato" dello Stato, collocato
culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del
potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali
subalterne ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come
ostili".

Lungi
dall’essere questione corporativa la riforma dell’ordinamento
giudiziario incide sui diritti di tutti e sulle regole della
convivenza. A chi, anche nell’opposizione, mostra di non
comprenderlo è opportuno ricordare che il tentativo di
modificare lo status di giudici e pubblici ministeri non è
isolato ma si accompagna a inquietanti regressioni nella tutela delle
libertà fondamentali: si propone - anzi si vota - la
punibilità della tortura solo se "reiterata" (così
autorizzando, di fatto, quella praticata in un’unica
occasione); si estende – anche qui con un voto parlamentare -
l’ambito della "legittima difesa" oltre ogni limite
di proporzionalità tra i beni in gioco; si ripropone la
tendenza a risolvere in chiave repressiva (anziché con la
mediazione) il conflitto sociale, come insegnano le cariche di Melfi.
In questo contesto l’indebolimento del controllo giudiziario
non è casuale. È bene tenerlo presente prima che sia
troppo tardi.
Pubblicato
su "L'Unità" dell'8 maggio 2004

08 05 2004
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