La riforma dell'ordinamento giudiziario
Siamo,
forse, al dunque. Divisa su tutto, la maggioranza sembra infine
decisa a puntare davvero sulla riforma dell’ordinamento
giudiziario. Gli indizi sono univoci. Prima della pausa
estiva, alla Camera, il testo è stato blindato dal Governo che
ha posto la fiducia, impedendo persino un inizio di dibattito sul
maxiemendamento finale scaturito dai cervelli ministeriali e
dai saggi di partito; e ora il guardasigilli preannuncia, in
Senato, una corsia preferenziale e senza intoppi. A fronte di ciò
solo la parte migliore della cultura giuridica e l'associazionismo
giudiziario sembrano opporsi con convinzione e cogliere la portata
devastante di questo intervento nel sistema delle garanzie e
degli equilibri istituzionali. Noi – questa Rivista –
non staremo, rassegnati, a guardare. Se la riforma passerà
ne analizzeremo i (molti) profili di incostituzionalità,
segnaleremo le contraddizioni, seguiremo criticamente l'attività
del legislatore delegato. Ma ora vogliamo, ancora una volta, fermarci
sul segno della riforma, anche per sollecitare, almeno in
questo rush finale, una più ferma opposizione.
Modificare in questo modo lo status di giudici e
pubblici ministeri non è, solo, elargire un contentino
al ministro Castelli (altrimenti destinato a restare nella storia del
dopoguerra solo come l’artefice del più grande sfascio
organizzativo della giustizia); è – cosa assai
più grave - un tassello decisivo nell'operazione in atto di
contrazione dei diritti, di smantellamento dello Stato sociale, di
irrigidimento autoritario delle istituzioni. Per ridimensionare i
diritti e le libertà occorre indebolire chi, per Costituzione,
ne è tutore e garante: la Corte costituzionale, anzitutto, e
poi la magistratura. E questo è l'obiettivo della riforma.
Primo.
Essa prevede un complicato sistema di concorsi per
le funzioni di secondo grado e di legittimità: per diventare
giudici di appello o di cassazione i magistrati dovranno affrontare e
superare appositi esami. Nulla di strano - verrebbe da dire - in una
società improntata alla meritocrazia. Ma non è
così. In questo modo si sovvertiranno la cultura dei giudici e
il loro rapporto con la società. I concorsi infatti, a tutto
concedere, possono selezionare i giudici tecnicamente più
preparati. Ma non è questo il problema della giurisdizione che
richiede, al contrario, strumenti per realizzare una crescita
professionale di tutti i giudici, posto che tutti allo
stesso modo (a maggior ragione in primo grado) si occupano dei
diritti, della vita, dei beni, dell’onore dei cittadini. E poi
perché la preparazione tecnica è uno dei requisiti del
buon magistrato, alla cui realizzazione concorre ben altro:
l’equilibrio, l’educazione, la capacità di
ascolto, la sensibilità ai diritti (doti che non si
controllano certo con gli esami...).
Secondo.
I concorsi non serviranno a rendere i giudici migliori; ma
incentiveranno il conformismo, il formalismo, il disinteresse al
fatto (che è, invece, il cuore del giudizio). Da che
mondo e mondo essi non selezionano i migliori ma promuovono gli
omogenei. Ciò che si ripropone è un sistema
analogo a quello degli anni cinquanta, così descritto un
quarto di secolo fa da F. Cordero: «Influiva sulla
sintonia con il sistema di potere politico ed economico il fatto che
ogni magistrato in qualche modo dipendesse dal potere esecutivo
quanto a carriera; i selettori erano alti magistrati col piede nella
sfera ministeriale; tale struttura a piramide orientava il codice
genetico; l’imprinting escludeva scelte, gesti, gusti
ripugnanti alla biensèeance filogovernativa; ed essendo
una sciagura l’essere discriminati, come in ogni carriera
burocratica, regnava l’impulso mimetico». A coronamento
del sistema il ministro ha voluto aggiungere una ciliegina: ai
dirigenti del ministero, tornati alle funzioni giudiziarie, dovranno
essere assegnati posti direttivi o, comunque, di primo piano. Per chi
non avesse capito.
Terzo.
Giudici e pubblici ministeri – non inganni il
concorso unico e la finta opposizione dei pasdaran della
separazione delle carriere – saranno drasticamente divisi,
attraverso il meccanismo della prescelta all’atto del concorso
e della scelta definitiva dopo tre anni. L’omogeneità
ordinamentale di tutti i magistrati non è una dogma di
fede e, anzi, una seria separazione delle funzioni è opportuna
e troppo a lungo rinviata. Ma allontanare il pubblico ministero dalla
cultura della giurisdizione in un momento storico l'attuale è
una regressione pericolosa e illiberale. Sarebbe ora di uscire
dall'ambiguità delle formule e degli slogan per ricordare che
la polemica contro la «commistione fra ruoli propri delle parti
e ruoli propri del giudice, realizzata in capo al pubblico ministero
dal legislatore liberale del 1913» fu un cavallo di battaglia
del guardasigilli Rocco e del regime che lo esprimeva. Il seguito è
noto...