Riforma o normalizzazione della magistratura?
Mentre i codici penali (sostanziale e processuale) e il sistema delle intercettazioni sono improvvidamente modificati a colpi di voti di fiducia, si torna a parlare di riforme della magistratura (costituzionali e non). Per favorirle, intanto, si aggrediscono i presìdi che, negli ultimi decenni, hanno contribuito - miracolo italiano - a conferire al sistema giudiziario valenze spiccatamente democratiche: l'esercizio diffuso dell'azione penale e il governo autonomo della magistratura. Non saremo noi a negarlo: le ragioni di critica, anche in questi settori, esistono e sono talora assai gravi. Ci sono stati - ci sono - nella attività di alcune procure eccessi e disinvolture che questa Rivista non ha mancato di segnalare e stigmatizzare; e ci sono, anche nel Consiglio superiore e nelle articolazioni dell'autogoverno della magistratura, opacit e derive clientelari e corporative. Ma il dato politico emergente, anche in ambienti progressisti, è l'uso strumentale di tali debolezze: non per introdurre correttivi utili a razionalizzare il sistema ma per minare e sovvertire il modello di magistratura che, almeno negli ultimi decenni, ha prodotto significativi cambiamenti della giurisdizione in senso egualitario e un proficuo pluralismo giudiziario (assolutamente necessario in un periodo di profonde trasformazioni). Il primo punto di attacco per "voltar pagina" è l'assetto degli uffici del pubblico ministero, che molti - con proposte dislocate sia sul piano ordinamentale che su quello processuale - vorrebbero riportare alla organizzazione gerarchica e piramidale precostituzionale, magari restituendo ai procuratori generali l'antico ruolo di «mandarini dell'azione penale». Si tratta di una impostazione non necessitata dalle modifiche ordinamentali introdotte con il decreto legislativo n. 106/2006 le quali - seppur ispirate, almeno in alcuni dei proponenti, da evidente spirito revanchista - hanno prodotto un esito normativo che non consente scostamenti dall'assetto del pubblico ministero voluto dalla Costituzione. A dirlo è finanche l'allora Procuratore generale della Cassazione, Delli Priscoli, nella relazione svolta nel gennaio 2007 alla prima inaugurazione dell'anno giudiziario successiva alla riforma ordinamentale: «È necessario rielaborare e interpretare le norme in materia (...) al fine di darne una lettura conforme al dettato costituzionale. Ritengo che i poteri del capo dell'ufficio di procura vadano letti in termini di responsabilità, piuttosto che di gerarchia. La modifica apportata dalla legge n. 269 del 2006 ha lasciato al procuratore capo la titolarità dell'azione penale, mentre ha eliminato la sua responsabilità esclusiva. (...) Il punto è (...) come coniugare la responsabilità e il potere direttivo del procuratore capo con l'indipendenza e l'autonomia dei sostituti. (...) Il potere del procuratore capo di intervenire in relazione a singoli processi esiste proprio in funzione del suo dovere di assicurare il rispetto di tali parametri (di uniformità, razionalità, efficienza e correttezza, ndR) ma deve essere esercitato in modo tale da consentire una piena trasparenza di modi e di fini, e quindi con motivazioniadeguate e controllabili». E, ancora, «solo dall'interazione tra l'Organo di autogoverno e di rappresentanza della magistratura e i capi degli uffici (...) può discendere la garanzia che tale funzione si volga al miglior perseguimento degli interessi della giustizia e al miglior soddisfacimento dei bisogni di giustizia dei cittadini». Soluzione equilibrata e razionalizzatrice, dunque. Eppure il perseguimento di questo obiettivo - sia con risoluzioni generali sia con risposte a specifici quesiti provenienti da uffici "caldi" (da Napoli a Genova) - sta esponendo il Consiglio superiore della magistratura a una rinnovata offensiva tesa a modificarne caratteristiche e ruolo. Anche questo è un deja vu. Le manifestazioni di diffidenza e disaffezione nei confronti del Consiglio - lo abbiamo detto e scritto più volte - sono risalenti: caso forse unico nella nostra storia, le proposte di modifica in punto presidenza e composizione del Consiglio sono iniziate prima ancora della sua concreta istituzione e merita aggiungere che la paternità di idee oggi riproposte con il sapore del nuovo - a cominciare dalla sottrazione al Consiglio della competenza disciplinare e dalla sostituzione, per i componenti magistrati, del metodo elettivo con il sorteggio (sic!) - risale addirittura all'on. Almirante (proposta di legge costituzionale n. 3568/1971 Camera). Eppure, pur con inadeguatezze e cadute corporative, questo Consiglio superiore - preso a modello in mezza Europa, come ci ricorda Mauro Volpi nel saggio pubblicato in questo fascicolo - ha costituito il punto di riferimento della magistratura italiana nei momenti più difficili della sua storia recente: terrorismo, mafia, corruzione. Sarebbe bene non dimenticarlo...